Sopravvissuti e sopravvissute, siamo sempre più vicini al finale di questa sesta stagione di The Walking Dead e ci rendiamo conto che, nonostante le mostruose oscillazioni avute in passato, lo show riesce ancora ad essere una serie potente, che sa come scherzare con la grande metafora dell’essere umano che è lo zombie e insieme con le nostre paure. L’impressione è sempre la stessa, da qualche puntata a questa parte: quella di sedersi pronti ad assistere ad uno spettacolo che mette come al solito uomini contro uomini, nonostante le minacce reali siano altrove. “Nella stessa barca” (dalle vele rosa, aggiungerei) è una puntata dove anche una dura come Carol è costretta a guardarsi indietro e rivivere il proprio passato, quello che con fatica aveva seppellito insieme al marito e soprattutto dopo la morte della figlia (nell’indimenticabile scena del fienile). Maggie si trova faccia a faccia con l’ennesima situazione di merda che forse, per la prima volta, affronta davvero con la consapevolezza di essere una madre. O almeno di volerlo essere.
NELLA STESSA BARCA
Se esisteva un vero espediente per svoltare ulteriormente la serie, e in un certo senso giustificare l’assenza di Negan (esasperatamente attesa della seconda parte di stagione), era quello di distogliere di nuovo l’attenzione dalla “caccia all’uomo” e focalizzarsi sulla brutta situazione che si prospettava già al termine del dodicesimo episodio (che abbiamo recensito qui): Carol e Maggie sono state fatte prigioniere da un gruppo di “salvatori” scampati per un qualche motivo al raid notturno di Rick e compagni. Al di là della breve trattativa iniziale e del momento del trasporto delle due prigioniere verso la “casa sicura”, durante il quale lo spettatore può intuire quanto siano ben organizzati e numerosi gli adepti di Negan, tutta la narrazione si sviluppa in un ambiente chiuso e claustrofobico. Il primo indizio lo abbiamo proprio quando in una bella inquadratura soggettiva col cappuccio notiamo una targa che recita “Kill flow & Row Processing”, che ci lascia immaginare si tratti di una sorta di mattatoio o roba del genere, utilizzato dai Salvatori come rifugio e “messo in sicurezza” con la buona tecnica degli zombie impalati, sempre alla Negan maniera. In questa unica stanza, impersonale quanto sudicia, si svolge il grosso della vicenda, ed è lampante che grande importanza venga data al ruolo della donna nel nuovo mondo, e al come le circostanze estreme e le casualità riescano ad incidere profondamente sulla personalità e sul carattere di un individuo. Cinque donne appartenenti a due gruppi diversi, ognuna con le proprie ragioni personali e, soprattutto, con la propria convinzione, vengono messe a confronto in un ambiente più simile a una scena teatrale, senza troppi scambi o stacchi, pur mantenendo a tratti quel principio di ignoranza e sconsideratezza, come se a volte gli sceneggiatori si distraessero a giocare con i criceti piuttosto che concentrarsi sulla trama. Molls, accanita fumatrice e sprezzante sarcastica, continua a fumare una sigaretta dopo l’altra, nonostante tossisca sangue, come una condannata che arresa all’idea della morte, le va incontro senza provare a combatterla, ma quasi assecondandola. Abbiamo poi “‘Chelle” (così viene apostrofata dalle compagne, presumibilmente Michelle) una donna il cui vissuto sembra essere semplicemente un “What if” della storia di Maggie: una ragazza che proprio come la moglie di Glenn ha perso il padre ed il compagno, insieme probabilmente alla speranza di un futuro migliore. Questo personaggio, nelle sue poche battute, ci fa anche capire quali siano i metodi dei Salvatori e in che modo venga mantenuto l’ordine: che poi si sia tornati all’applicazione del Codice di Hammurabi, questa è un’altra storia.
Sicuramente la coppia più interessante in questa vicenda è quella formata da Carol e Paula, la donna più emancipata che sembra anche essere alla guida del piccolo gruppo. Anche in questo caso i background sono simili, e probabilmente la risultante caratteriale delle due non è nemmeno così diversa. Carol lo capisce, rivede in Paula se stessa, le sue sofferenze e le sue perdite e, soprattutto, sarà costretta a fare i conti con ciò che è diventata – dopotutto, niente più che un’assassina (Morgan approverebbe questi discorsetti, se solo potesse sentirli); sarà proprio la leader del team dei Salvatori a cacciare fuori la parte tenera della finta casalinga disperata nella quale si trasforma Carol, portandola a rivangare il suo passato e a sentirsi realmente debole, a provare paura per ciò in cui si è trasformata dopo molto tempo. Da qui il titolo e la battuta geniale di Molls “nella stessa barca”: tutte loro hanno dovuto fare i conti con l’epidemia zombie e sono state messe di fronte all’unica vera certezza nella vita, vale a dire la morte. Più e più volte viene anche ripreso il discorso della paura, motore di questo nuovo mondo: viene sviluppato molto agilmente, sfruttando i nuovi personaggi anche nelle pochissime battute che toccano loro, spaziando dall’argomento bambini post-apocalisse al background comune, fino a condividere come confessioni le storie che li hanno portati in quella stanza; quanto tutti loro sono stati costretti a lasciarsi alle spalle? Cosa li ha resi ciò che sono? Quando è scattato l’istinto di sopravvivenza e in che modo sono riusciti tutti ad andare semplicemente avanti? Ancora una volta ci viene sbattuta l’amara verità in faccia: esistono buoni e cattivi nel nuovo mondo? Rick e gli altri sono davvero i “buoni” della situazione? Nonostante abbiano ammazzato più gente loro che tutti i villain messi insieme, chi li ha investiti di questo compito? Chi gli ha dato o gli darà ragione? Se immaginiamo che il ragazzo di ‘Chelle lo ha fatto saltare in aria il nostro beniamino Daryl, vediamo che tutto è congegnato alla perfezione. La risultante è proprio quella di aprire interrogativi etici e morali, di spingerci a immaginare cosa sia capace di fare l’essere umano per sopravvivere o, più banalmente, prevalere sull’altro.
SIAMO TUTTI NEGAN
Io stesso ho lamentato nelle precedenti recensioni la mancanza fisica di Negan e la sua comparsa: quello che ci insegna, però, questa puntata è riuscire a guardare oltre l’identità e a capire che il supervillain tanto atteso sia ben più che un semplice uomo. Quello che ci vogliono dire gli sceneggiatori quando riescono a lasciare in pace il criceto e si dedicano alla scrittura è chiaro: c’è più di un passaggio nel quale i Salvatori, parlando di Negan, sembrano riferirsi a qualcosa che loro sanno essere oltre la comprensione dei bulli di Alexandria, più che un leader, un’idea, qualcosa presente in tutti loro, come una sorta di spirito guida, il che indubbiamente accresce ulteriormente la suspance e gioca a favore di questa sorta di stallo. Negan smette di essere un uomo e diventa una metafora molto dura ed esplicita: metafora di fede cieca, grazie anche alla durezza dei suoi metodi, più forte di qualsiasi forma di democrazia o dittatura (il rosario affilato ne è l’ulteriore testimonianza, di questo gioco fra razionalità e fede). Il finale si commenta da solo, invece, degno sicuramente del “kill floor” che è stato teatro di tutta la vicenda, e ci piace.
Negan c’è sempre stato, dall’inizio, ed ora lo sappiamo.
– Antonio Sansone –
The Walking Dead 6×13: recensione
Antonio Sansone
- Per una volta il lato sentimentale viene usato in una chiave di lettura più gradevole della solita romance spiattellata;
- Carol sempre più complessa e sempre più bella;
- Ho adorato il lato cinico di Molls (o Mollie, se ve pare), tipicamente debole e tipicamente umana;
- Lauren Cohan (Maggie) deve ancora imparare a recitare per più di trenta secondi di inquadratura consecutivi;
- Puntata difficile da seguire per chi ancora continua ad aspettarsi un survival horror puro;