Gli appassionati di videogiochi giapponesi, già abituati a dover pregare ogni volta per sperare di poter vedere i titoli più interessanti distribuiti anche in Occidente, sanno bene che quando ciò accade non sempre si può parlare di lieto fine, perché il rischio che nel processo di “adattamento” qualcosa vada storto e che il prodotto che andranno ad acquistare non sia esattamente corrispondente alle loro aspettative è sempre in agguato, col pericolo ben conosciuto e dal terribile nome di “censura”. Del resto in Italia siamo stati abituati da sempre a ricevere versioni molto edulcorate di prodotti appartenenti al mondo giapponese: gli esempi più noti riguardano gli anime, da sempre vittime di pensanti tagli e modifiche, con alcuni eccessi che ora, nell’era di Internet, possono solo farci sorridere. Ma il sorriso scompare in un attimo quando a essere colpito da censura è il nostro passatempo preferito, i videogiochi.
A fare notizia in quest’ultimo periodo sono stati nello specifico alcuni prodotti di Nintendo, azienda notoriamente molto attenta al suo pubblico: le prime brutte notizie hanno riguardato la versione occidentale di Fire Emblem Fates, il nuovissimo capitolo della saga RPG/tattica di Intelligent System, che da noi uscirà il 20 maggio, sebbene in una versione non del tutto identica a quella originale. Un lungo filmato dedicato a Soleil, personaggio femminile attratto da altre donne (che viene drogata per fare in modo tale che veda come uomini le donne e viceversa), è stato infatti totalmente eliminato, senza nessuna spiegazione.
O meglio, Nintendo una spiegazione avrebbe anche provato a fornirla, rispondendo alle accuse di censura mosse dai fan, parlando di “una pratica non così anomala nel momento in cui si localizza un titolo” e di “cambiamenti necessari per rendere il prodotto appropriato a determinati territori”, argomentazioni, insomma, che aprono tutta una serie di riflessioni su come ci si debba muovere quando si realizza la trasposizione di un’opera (di qualsiasi natura essa sia, letteraria, cinematografica o videoludica) per una cultura totalmente diversa da quella che l’ha originata. Perché se è certamente vero che è diritto di ogni azienda rendere un proprio prodotto più appetibile possibile nei confronti dei vari mercati, cercando in soldoni di vendere più copie possibili in nome del massimo profitto, è allo stesso modo vero che così facendo si scontenta tutta quella fetta di utenza che pretende un prodotto il più possibile integro e fedele all’originale, uno zoccolo duro di puristi che acquista giochi giapponesi proprio perché vuole immergersi in quella cultura, e non in una versione adattata solo per venire incontro al consumatore medio.
Un discorso del genere, che va a toccare questioni assai complesse come le regole del mercato, la ricezione di un prodotto e il marketing, assume tuttavia sfaccettature ridicole quando applicato a prodotti davvero al di sopra di ogni sospetto, come il recente Bravely Second: End Layer, sequel diretto dell’ottimo jRPG Bravely Default, che si è guadagnato subito il favore della critica (ne abbiamo fatto un’anteprima approfondita qui); un gioco, cioè, che fa della grafica molto stilizzata e particolare, con protagonisti in versione “chibi” (quella tecnica che rappresenta personaggi in uno stile più infantile e comico), e dell’estrema cura artistica per ogni dettaglio, i suoi cavalli vincenti, con risultati che sono decisamente lontani rispetto a ciò che è possibile vedere in altri giochi di ruolo giapponesi, dove magari non si fa economia di personaggi femminili sproporzionati in ben altri termini, e in cui il continuo ammiccamento costituisce una regola. Da questo punto di vista certamente tra la nostra cultura e quella giapponese c’è un abisso, ma è altrettanto vero, appunto, che molti appassionati cercano in questo tipo di giochi proprio questa distanza, questo stile così estraneo al nostro modo di pensare, ma per molti versi decisamente affascinante.
In Bravely Second ad essere stati censurati sono i vestiti dei personaggi femminili, modificati con drappi e zip per nascondere parti troppo scoperte, con risultati, a onor del vero, che in diversi casi hanno trovato anche l’approvazione del pubblico, proprio per quella differenza culturale di cui abbiamo parlato, mentre una classe tra le tante sbloccabili nel gioco, quella del Tomahawk, che richiama chiaramente un nativo americano, è stata convertita in quella più politically correct dell’Hawkeye, dall’aspetto del costume che ricorda da vicino i classici cowboy dei film western. Quest’ultimo caso è facilmente spiegabile: se per un giapponese, infatti, impersonare una classe fantasy che riprenda caratteristiche e aspetto dalla tradizione degli indiani d’America possa apparire come esotico e affascinante, per il pubblico occidentale e soprattutto statunitense, che ben conosce la realtà delle popolazioni native del Nuovo Mondo (sterminate e costrette in misere riserve per secoli), la faccenda potrebbe apparire senza dubbio più complicata, spiegando dunque il leggero ma dovuto cambiamento in fase di adattamento. Ma se in questo caso una simile modifica è giustificabile e comprensibile, lo è molto di meno la scelta di eliminare dal titolo uno dei due finali che era possibile sbloccare in base alle scelte compiute durante la storia. Pare, infatti, che nella versione europea del gioco, a prescindere da quale “cammino” si intraprenda con le varie quest che si vanno ad affrontare, sia possibile sbloccare solo il finale “buono”, quello che mostra, insomma, il classico lieto fine, mentre il finale negativo sarebbe stato completamente rimosso senza nessuna spiegazione a riguardo, rendendo completamente inutile l’intero sistema di scelte che doveva rappresentare una gradita novità rispetto al primo capitolo della saga.
E voi isolani cosa ne pensate? Fino a che punto è possibile modificare un titolo per renderlo più apprezzabile al pubblico e quando si può parlare di censura?
– Alessia Bellettini –