Sempre più interessanti, sempre più avvincenti le conferenze del ciclo Scienza & Fantascienza all’Università degli Studi dell’Insubria promosso dal Prof. Paolo Musso. Mercoledì 3 Dicembre come relatori sono stati presenti Antonio Serra, già ospite della prima puntata dell’evento, e Patrizia Mandanici, sua amica e collaboratrice, alle prese con la sua prima chiacchierata pubblica. La sua presenza è stata veramente gradita e i suoi interventi interessanti per comprendere a pieno l’argomento dell’incontro: L’alieno nel fumetto di fantascienza. Infatti, Patrizia, disegnatrice presso la Sergio Bonelli Editore per le testate di Legs Weaver, Gregory Hunter e Nathan Never, è stata molto precisa nelle spiegazioni, coadiuvate da magnifici disegni creati lì per lì apposta per noi ad una velocità incredibile e con una varietà stupefacente. Inoltre, il contributo di Antonio è stato come sempre veramente coinvolgente.
Quindi, L’alieno nel fumetto di fantascienza: l’excursus nel mondo del fantastico è stato approfondito e interessante proprio perché rivolto in buona parte all’esperienza personale. Questo, però, non ha tolto oggettività alle spiegazioni.
Ci è stata presentata una differenza fondamentale fra i tre prodotti cui Patrizia ha lavorato per Bonelli. Da un lato, il famosissimo e amato Nathan Never, in puro standard bonelliano, con tono e disegni sempre molto realistici. Dall’altro, Gregory Hunter e Legs Weaver, che invece rompono questo schema classico, integrando nel primo caso strambi alieni e nel secondo uno stile contaminato con il manga. Titoli che erano più in linea con l’opera di Patrizia, la quale predilige gli alieni “buffi”, piuttosto che la resa “terrorifica”, che pure sembra essere quella preferita dal mondo di oggi. Non stentiamo a crederlo, dato che sia Gregory che Legs sono stati interrotti e che cinema e fumetti pullulano di alieni mostruosi. D’altra parte, ci fa notare Antonio, forse negli anni Settanta e Ottanta, i gusti della società erano un po’ diversi. Basti pensare a Star Wars e al suo tono umoristico, che spezza i momenti di tensione con robottini svolazzanti. Oppure ET, Incontri ravvicinati del Terzo Tipo o Cocoon, che non hanno alieni belligeranti. Forse un tempo si cercava di empatizzare con l’alieno, con il diverso, di vederlo come qualcosa di non completamente malvagio. Oggi invece l’alieno è intrattenimento e quindi si presta, più che a trattare un tema sociale, ad essere il cattivo delle storie. Vedi l’alieno, spara: ci piace, attrae, se il film è buono ti tiene incollato alla poltrona. Se vedi un mecha che afferra una petroliera per sfasciarla sul grugno di un kaiju, ti entusiasmi… “è una figata!” (per citare la mia regia). E sul versante dei fumetti o dei libri imperversa lo stesso immaginario, basti pensare a Stephen King e ai suoi thriller orrorifici densi di alieni (attenzione, non solo extraterrestri!), o alla gran quantità di manga che usano la figura dell’alieno come nemico assoluto e senza speranza di redenzione. Un’eccezione piuttosto rilevante sono i Dears delle Pitch-Pit, che compaiono nella serie omonima.
Un grande cambio, che disegnatori e illustratori hanno dovuto tradurre a livello visivo. Se l’alieno “umoristico” lo rappresenti facilmente mescolando un umanoide con tratti animali, come ne rappresenti uno assolutamente “cattivo”? Patrizia ci fa notare che questo può avvenire solo con un impegno immaginativo più attivo, che vada oltre la semplice ispirazione alle forme della natura. Bisogna dunque sviluppare il gusto del grottesco e riuscire a renderlo in un’immagine organica. In questo caso, fa scuola Alien, per cui anche l’ispirato Moebius ha sviluppato alcuni bozzetti.
In sostanza, più si vuole rendere l’alieno cattivo, più deve essere diverso. Perché se guardiamo Alien Nation, dove gli alieni sono identici a noi, se non per il capo rasato e tatuato, in realtà ci stiamo guardando allo specchio, rappresentati come avremmo potuto essere se fossimo nati da un’altra parte, in un altro tempo, in una galassia lontana. Ma se guardiamo Edge of Tomorrow o Pacific Rim, mai potremmo empatizzare con i mimic o i kaiju, che altro non fanno se non tentare di portare la razza umana all’estinzione… e distruggere città a codate. Però non possono essere nemmeno troppo diversi da quel che compare nei nostri Manuali dei Mostri Personali, altrimenti non riusciremmo a percepirli in modo esatto e ci disgusterebbero e basta, portandoci a non apprezzare il prodotto.
Allo stesso tempo, sono cambiate anche le tecniche di raffigurazione. Per esempio, parlando del cinema, prima gli alieni erano più o meno tutti umanoidi per questioni di budget. Ora questo problema è stato risolto dalla computer grafica, che permette cose incredibili. Per un’analisi più approfondita su come è cambiata la figura dell’alieno, vi rimando a Ufo, extraterrestri e alieni: viaggio nella diversità.
La computer grafica ha ridefinito il concept design dei mostri. Una volta l’illustratore era costretto a limitarsi a disegnare quello che poi poteva facilmente essere portato in scena. Quindi i mascheroni dovevano essere semplici ma d’impatto, possibilmente caratterizzati a partire da una normale forma umana cui si aggiungeva uno stile di abbigliamento e dei particolari sulla pelle che non comportassero grandi spese e ore di lavoro. Oggi questo problema non sussiste. L’universo ci ha fatto l’enorme regalo della computer grafica, che in effetti limita la creatività tecnica degli artisti, che non devono più fare del free mirror climbing per capire come portare in scena un determinato concept. Una volta il cinema di fantascienza era fatto da astrusi meccanismi, pupazzi, maschere in silicone, tizi nei mostri che ne muovevano i tentacoli o la coda, altri tizi che muovevano corde, altri ancora che telecomandavano una determinata parte, poveracci sepolti in strati e strati di silicone, altri cui il togliere il trucco bruciava la pelle, occhi e occhi lacrimanti per lenti a contatto ben poco agevoli. Tutto questo è ormai stato quasi del tutto eliminato. Addirittura, se un attore ha gli occhi di colore “sbagliato”, la correzione può non avvenire con lenti a contatto, ma manualmente con il ritocco della pellicola! Quindi, la computer grafica limita la creatività tecnica, ma permette il libero sfogo e la somatizzazione di ogni psicopatologia di ogni designer (il cinema è in mano a pazzi psicotici, lo sappiamo dal 1903).
E poi, c’è un altro grande scoglio per i disegnatori: l’impossibile. Per esempio, ci dicevano Antonio e Patrizia, in Gregory Hunter compaiono le evergreen e meravigliose balene spaziali, creature dalla forma di balena che, al posto che nuotare nell’oceano, lo fanno nello spazio interstellare. Assolutamente impossibile: non c’è aria, cosa respirano esattamente? Non respirano, semplice. La verità è che la fantasia ha le sue regole, che non sempre coincidono con quelle scientifiche, e nel raccontare di universi lontani si possono prendere delle licenze. Questo permette ai disegnatori come Patrizia di dare libero sfogo alla propria fantasia, di coinvolgerci nei loro mondi immaginari e appassionarci con le loro storie.
Purtroppo, la nostra fantasia si forma con quello che vediamo, leggiamo, ascoltiamo. Siamo indissolubilmente legati a ciò che sperimentiamo. Questo vuol dire che se la fantascienza di intrattenimento è stata portata alla massa con toni umoristici, il gusto dei giovani in quel periodo (gli anni ’70 e ’80) si è formato con un canone che agli adolescenti di oggi non potrà più piacere, perché questi ultimi sono stati immersi più nel fanta-horror che nella fantascienza. Ci sono rari casi che si collocano nel mezzo, come per esempio Mars Attacks!, ma il successo di questo genere di prodotti è più legato alla resa divertente e grottesca, piuttosto che al sarcasmo delle battute o delle scene. Questa è la spiegazione al perché fumetti come Gregory Hunter, che fa dell’ironia e dell’alieno buffo i suoi capisaldi, non incontrano più il favore del pubblico, che vorrebbe prodotti orrorifici o più seri e realistici come Nathan Never.
Però la crisi riguarda tutti i generi. Il mercato è così in difficoltà che le cifre che giustificano le presenze editoriali delle testate sono sempre più basse, altrimenti tutto scomparirebbe. Basti pensare che quando Gregory Hunter è stato ritirato perché in calo, vendeva comunque più di quanto vende attualmente Nathan Never. Un discorso che è quasi fantascientifico, da tanto sembra assurdo. Eppure è così: pur di continuare ad arrivare in edicola ci si accontenta di cifre sempre più basse, di margini di guadagno cospicui, ma sempre inferiori. E sembra che nessuno, neanche la Bonelli, che è la casa editrice di fumetti italiani per eccellenza, possa riuscire a sovvertire questa tendenza. La spiegazione è che viviamo in una società abituata a consumare a ritmi frenetici. Vale per tutti i prodotti, anche per le idee.
Ultimamente, sembrano andare bene le opere che contengono una buona quantità di sesso e violenza (Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, sotto questo punto di vista, fanno scuola in ambito letterario e televisivo). Si cerca di infarcire le opere con quantità sempre più estreme di questi elementi, ma raggiungere il limite è davvero costruttivo? Socialmente parlando, la fantascienza ci insegna che no, non è costruttivo. È vero solo superficialmente che lo spettatore cerca sesso e violenza: il troppo stroppa (come diceva Pippo), quindi se si esagera quello che investe lo spettatore è schifo, non il piacere della visione. Perciò, qual’è il mix veramente vincente? Non c’è, perché consumiamo e consumiamo e consumiamo, e corriamo e, al contrario di quello che succedeva una quarantina di anni fa, tutto diventa vecchio nell’arco di un anno – se non di meno. Così è un successo se una serie tv arriva alla terza stagione – ed è un miracolo se si riesce a vederla conclusa.
Agli albori della serializzazione sci-fi e del cinema di genere, questo non succedeva ma, attenzione!, sbaglieremmo se pensassimo che quelle opere erano di qualità più elevata. Il punto è che l’offerta era minore e se un prodotto ti piaceva bene… se non ti piaceva, te lo facevi piacere. E questo comportava anche che tutto invecchiava più lentamente, diventando al contempo un caposaldo dell’arte d’intrattenimento contemporanea. Da circa gli anni ’90 si è iniziato con un cinema di massa, ma non nel senso che i film arrivavano alla gente… nel senso che di film ce ne erano una massa. Allora è iniziata la cernita, sia dei critici che dei consumatori, e non sempre i giudizi delle due categorie coincidono. Oltretutto, è subentrata la “specializzazione” di fan e spettatori, sempre più esigenti, sempre più incontentabili. Quindi sempre più consumatori, e a questo punto – per soddisfare tutti – le case produttrici devono rilasciare sempre più opere, a ritmi sempre più frenetici. E così ci troviamo al 2015, con almeno un paio di cine-marvel all’anno, un film di Star Wars o Star Trek annunciato ogni due, Prometheus che piuttosto di essere un prequel è una trilogia prequel, e così via. Ma non sempre queste dinamiche coincidono con vera qualità, e vera qualità non è detto sia quello che viene spacciato per tale.
Come pararsi da questo? Formando un proprio gusto personale, evitando di etichettare come scadenti opere low budget e come molto belli film in odore di Oscar.
– Elena Torretta –