Dei segni compaiono dalle oscurità siderali mentre la telecamera esplora un terreno arido e segnato da fenditure. L’immagine si sposta su quella che sembra essere la superficie di un pianeta. Il silenzio viene disturbato da un crescendo graduale di suoni indistinti. Ancora qualche istante: i caratteri estranei si mostrano come lettere del nostro alfabeto, quella che sembrava essere una superficie celeste si rivela essere un guscio d’uovo in procinto di creparsi, rivelando indicibili orrori quale un moderno vaso di Pandora. Il rumore diviene roboante, una sirena si lamenta con sempre più foga, le immagini si alternano in rapida successione e, infine, un silenzio pieno di tensione e dubbi. Questo era nel 1979 il trailer dell’Alien di Ridley Scott e già turbava il pubblico con un’atmosfera terrificante e con le immagini sessuali che contraddistinguono il lavoro finale.
No, non siamo andati in un cinema gestito da uno psicotico che si diverte a inserire fotogrammi porno in film per famiglie né abbiamo confuso i DVD finendo per vedere una porno parodia (ma grazie comunque per la fiducia). Alien, nato concettualmente come Star Beast, si distingue da molte altre pellicole di fantascienza grazie all’intuizione di Dan O’Bannon nell’inserire distorte componenti erotiche al centro della caratterizzazione delle sue creature o, per usare le sue stesse parole, “questo film è incentrato sulla violenza sessuale interspecie.” Sempre O’Bannon suggerì il coinvolgimento del celebre H.R.Giger, artista noto per le tinte cupe e dall’ossessione per tutto ciò che ricorda gli organi riproduttivi, il quale si è dimostrato perfettamente all’altezza del compito esplorando ulteriormente delle illustrazioni che aveva pubblicato nella raccolta Necronomicon e definendo così gli storici lineamenti dei cosiddetti xenomorfi.
Rivedendo il lungometraggio in questa luce, non si può fare a meno di notare i messaggi – più o meno ambigui – che ricordano costantemente il come il rapporto non-consensuale sia una forma di indicibile violenza capace di creare un malessere superiore a qualsiasi altra forma di brutalità e di come queste sensazioni di disgusto siano in grado di stimolare una forte valenza subliminale che ricalca le regole essenziali dell’espressionismo. Nelle prossime righe analizzeremo più in profondità il simbolismo adoperato dal regista, dando per assodato che abbiate già visionato questa pietra miliare del cinema contemporaneo o che, perlomeno, vi sia nota la trama (in caso contrario rimediate e poi tornate a leggere, noi aspettiamo).
Sin dalle prime scene siamo introdotti al tema della maternità. La ciurma della nave spaziale Nostromo viene risvegliata dal sonno criogenico perché possa indagare sulle origini di un misterioso messaggio inviato da una zona inesplorata delle mappe; a rianimare la squadra di servizio è il computer di bordo, Mother. Poco dopo, risaliti alla fonte dell’interferenza, rinvengono un mezzo sconosciuto – la cui forma ricorda vagamente delle tube di Falloppio – e vi penetrano attraverso giganteschi ingressi dalla forma vaginale, risalendone gli stretti corridoi fino a raggiungere un salone che custodisce una miriade di uova (se non cogliete il sottotesto, dobbiamo parlare di api e fiorellini). Le uova si schiudono spalancando le loro carnose labbra ed eiettano un elemento ricorrente della saga cinematografica: il facehugger.
Tale creaturina risulta essere il secondo stadio evolutivo degli xenomorfi, ma la menzioniamo in questa occasione come ennesimo esempio delle radicate immagini freudiane che Ridley Scott ha voluto sfruttare; si tratta di fatto di un paio di mani con lunghe dita ossute unite al centro da una fessura che rende omaggio al sesso femminile. Dalla fessura emerge un’appendice tentacolare che intuba la gola della vittima designata – come a emulare una fellatio particolarmente aggressiva – mentre un paio di graziose sacche respiratorie dall’aspetto scrotale si occupano di passare ossigeno ai polmoni del parassitato. La forma violenta di questa invasione viene evidenziata dallo sventurato in questione quando, credendo di stare patendo i postumi dell’assalto solo con un dolore fisico, finisce per “partorire” un chestburster, l’infante alieno che pare essere il rispettivo virile della vagina dentata.
Questa fase infantile si sviluppa effettuando una muta – abbandonando uno strato di pelle che alcuni sostengono richiami un profilattico infranto – e assume la sua inquietante forma finale, iniziando a sterminare l’equipaggio con una dose notevole di perforazioni. In particolare è interessante notare come l’essere si accanisca particolarmente contro la navigatrice, il componente più femminile della squadra; qui lo xenomorfo trascorre diverso tempo immobile a pregustarsi macabramente l’assalto, sbarazzandosi con noncuranza dell’ingegnere che lo ostacola e avvicinandolesi con calma per poi impalarla senza troppi fraintendimenti. Anche la protagonista principale, Ripley, si trova a subire l’assalto più feroce solo una volta abbandonate le armi e gli abbigliamenti mascolini, rimanendo con un intimo che lascia intravedere le sue sensuali forme.
L’alieno, tuttavia, non è l’unica minaccia presente sull’astronave.
Tra i vari componenti della spedizione vi è un “traditore” che non si farebbe problemi a eliminare i suoi compagni pur di portare a compimento i suoi programmi; l’unico suo tentativo di omicidio ha lasciato però perplesse molte persone a causa della strana scelta di voler commettere il crimine usando un mensile arrotolato. Sebbene parrebbe essere uno strumento utile solo a intimorire un cane fifone, il magazine assume le forme dell’ennesima figura fallica che viene spinta a forza nella trachea di un essere umano impotente. Una volta sventato l’agguato, inoltre, l’assalitore esplode in una miriade di schizzi lattiginosi che quasi si pongono come grottesco riflesso di un coito interrotto maschile.
A questo punto è sorprendentemente scoprire sia presente nel film anche un rapporto filiare sano e positivo, un rapporto che ci viene silenziosamente proposto sin dagli istanti iniziali: si tratta del legame tra Ripley e il suo gatto, visto per la prima volta acciambellato con lei nella capsula criogenica, che si protrae per tutti i 117 minuti di filmato con l’eroina che giunge al mettere a repentaglio la propria vita per recuperare il suo animale da compagnia fungente ruolo di pargolo particolarmente peloso. La parabola della maternità viene ulteriormente esplorata in Aliens, dove la protagonista sostituisce il felino con una bambina vera e propria, e In Alien: La Clonazione, nel quale i ruoli si invertono quando una nuova specie di xenomorfo si trova a dovere scegliere la figura materna su cui fare affidamento.
Dagli anni ’70 a oggi questo gioco di suggestioni è stato citato da più media, ma nessuno è riuscito a ricreare degnamente l’alchimia della cooperazione tra O’Bannon, Giger e Sir Ridley Scott; lo stesso brand, anche senza contare gli spin-off rappresentati da Alien Vs Predator, ha perso con il tempo il suo brio ed è sfociato nel confuso prequel chiamato Prometheus (al quale la Dark Horse Comics cercherà di attribuire un senso con un nuovo fumetto in uscita). Sempre nel prossimo futuro rivedremo Alien anche in campo videoludico con un titolo che, per la prima volta, si priva degli armamentari militari per concentrarsi sul terrore e sull’ansia dell’essere soli in balia di una creatura pericolosa. C’è da chiedersi se anche in gioco le situazioni di panico saranno create dalle suggestioni sessuali o se la casa produttrice intenda spaventarci facendoci spendere un sacco di soldi per finanziare ogni singolo extra.
-Walter Ferri-