Neill Blomkamp ha un nome decisamente impegnativo, difficile da tenere a mente, eppure è facile lo conosciate già, se non per la biografia per le sue opere. Si tratta di un regista di origini sudafricane il cui profilo era quantomai anonimo fino a una manciata di anni fa; in effetti il suo retaggio lo lega all’illustrazione e agli effetti speciali, le sue esperienze da cineasta sono state a lungo relegate a réclame televisivi e poco altro. Uno di questi lavori, tuttavia, promuoveva un videogame di discreta fama noto come Halo 3. Le clip, strutturate in una trilogia di cortometraggi live-action, erano meno evocative del celebre spot/diorama “belive”, ma nel loro piccolo sono riuscite ad attirare le attenzioni del Festival di Cannes, guadagnandosi una meritata Palma d’oro. Nel 2007, nel pieno apice del periodo ascendente della rinomata saga dell’Xbox, la passione nei confronti di Halo 3 aveva motivato i produttori di Hollywood a lavorare su di un lungometraggio a tema; immediata fu la scelta di convocare il giovane con cui avevano già collaborato e che aveva dimostrato di meritarsi la stima dei professionisti, decidendo di affidargli il progetto sotto la supervisione del rodato Peter Jackson.
Come tutti i videogiocatori sapranno dirvi, il film non è mai uscito dalla fase di pre-produzione, ma Neill aveva sfruttato l’occasione per instaurare contatti ben collocati e, con la benedizione di Jackson, ha trovato il modo di recuperare i fondi necessari a riprendere in mano un suo vecchio cortometraggio traducendolo in District 9, pellicola che a suo modo ha fatto la storia del cinema. Con il pretesto di creare un’atmosfera emule del documentario, Blomkamp si affida alla telecamera “instabile” che aveva già ampiamente rodato in passato e la abbina a una trama toccante che si ispira, non troppo velatamente, ai misfatti subiti dal suo paese natio. Seppure la nostra società sia in maniera a dir poco inquietante flagellata da un’ignoranza abissale nei confronti di tutto ciò che riguarda l’apartheid, le scelte stilistiche e i parallelismi viscerali con la cupa realtà hanno saputo forgiare un’esperienza verosimile e condivisibile, conquistandosi i favori della critica grazie alla sensibilità del girato e quella del pubblico attraverso una colossale operazione di marketing rafforzata dagli aspetti più puerili delle scene di combattimento.
District 9 delinea alla perfezione gli aspetti fondamentali che si riscontrano nell’operato di Blomkamp, tratti che ha portato avanti in ogni singolo aspetto nella pellicola Elysium. Altro commentario sociale mascherato da sci-fi, il film affronta ancora più esplicitamente le critiche avanzate dal regista. L’aggressività di uno stato sempre più tendente al fascismo, la difficile reintegrazione dei pregiudicati, il divario tra classe ricca e classe operaia (che fa evidente riferimento al movimento di Occupazione che aveva manifestato a Wall Street), vengono trattati senza mezzi termini e, anzi, risultano enfatizzati a livelli estremi al limite della goffaggine. La verosimiglianza del finto documentario lascia spazio a una fotografia molto più raffinata che, tuttavia, punta con decisione verso quell‘influenza videoludica che Neill non ha mai cercato di nascondere; la sensazione di appartenenza al mondo dei videogiochi è acuita da una trama ingenua e stereotipata che è stata in grado di rendere incredibilmente commerciale il prodotto immolandolo di conseguenza alle attenzioni della critica.
Nonostante l’influenza delle necessità economiche abbia inciso sulla qualità stessa della celluloide, il giovane regista è riuscito a garantire degli alti standard nel design e ha affrontato delle decisioni estremamente raffinate che, purtroppo, si sono perse nella traslazione alle masse. Riportiamo come esempio il fatto che molte delle scene ambientate nelle disastrate zone del distopico mondo di Elysium non siano state filmate in studio o su set cinematografici, bensì in malsani quartieri messicani che hanno obbligato Matt Damon a coprirsi di materia fecale, denunciando di fatto che le incredibili situazioni visionate nel lungometraggio non siano aliene quanto ci piacerebbe credere e che, anzi, facciano parte di una realtà che stiamo già vivendo.
Non c`e due senza tre. Ora aspettiamo con ansia Chappie (anche noto come Humandroid), ennesima pellicola nella quale si riscontrano fortemente i topos Blomkampiani: remake di un suo corto passato, estetica pressoché identica a quella di Elysium (al punto che potrebbero fare parte di un medesimo universo), contenuti morali riguardanti l’accettazione del diverso, superamento delle barriere attraverso una trasformazione personale e contenuti atti ad attirare le folle di spettatori occasionali (in questo caso reclamizzando prepotentemente la presenza dei Die Antwoord, noto duo musicale afrikaner). Ovviamente, non avendo ancora preso visione di Chappie, non possiamo fornirvi un’opinione se non attraverso i trailer diffusi, ma non ci sorprenderebbe scoprire la narrazione si sia assottigliata sacrificando l’anima del prodotto per trasmettere un messaggio latente, nascosto tra scene peccaminosamente hollywoodiane e quarti d’ora d’azione spropositata.
In effetti, questa evoluzione parrebbe essere stata notata da Blomkamp stesso che, nelle più recenti interviste, ha rivelato di avere momentaneamente accantonato il progetto di District 10 (sequel ufficiale del film con cui ha debuttato), perché avverte la necessità di allontanarsi dal tema dell’oppressione sociale che ha guidato la trilogia ad oggi partorita. Nonostante solitamente queste uscite risultino spesso delle sparate per promuovere la propria immagine, siamo convinti nella sua buona fede, anche perché, nel frattempo, gli studios stanno facendo di tutto per arruolarlo in mille progetti inerenti alla fantascienza (vedi la Disney con Star Wars). Rimanendo sul tema sci-fi, Neill si è mosso attivamente per tutto l’inizio 2015 motivato dal desiderio di avvicinarsi all’universo di Alien; certo, le sue uscite a riguardo consistevano inizialmente in innocenti illustrazioni pubblicate sul suo istagram in qualità di fan dell’horror, ma è facile che qualcosa stesse già bollendo in pentola perché, a distanza di qualche mese, un tweet urla al mondo l’inizio della sua avventura come nuovo regista dell’eterna saga degli xenomorfi.
Blomkamp e Alien sembrano fatti l’uno per l’altro. Il giocoso e il peccaminoso intrattenimento del film action si fonde al design derivante dal genio di H. R. Giger e alla critica sociale che si evinceva già nei primi due capitoli (rispettivamente invettive contro la violenza sessuale e la guerra), il tutto saldato strettamente da una passione sfrenata e una mente fine. Il fanatismo di Neill è talmente coinvolgente che, oltre alla seggiola del regista, occuperà anche quella del sceneggiatore e, in tal senso, ha ricevuto la somma benedizione della produzione a intervenire direttamente sul canone conosciuto fino ad oggi; si tratta, a ben vedere, di un onore e onere che lo stesso Ridley Scott (creatore della saga) ha schivato nel concepire Prometheus, episodio atipico della saga che tutt’oggi non ha una collocazione definitiva.
Nello specifico, la nuova pellicola si inserirà tra Aliens e Aliens 3 e, da quelle poche indiscrezioni che circolano al momento, sconvolgerà sensibilmente la linearità della narrazione, arrivando a scomodare personaggi che, fingendo la non esistenza del videogame Aliens: Colonial Marines, abbiamo sempre dato per defunti. Ogni giorno che passa, Blomkamp diffonde nuove informazioni, quasi fosse un bimbo troppo entusiasta per trattenere la sua euforia, uno slancio che coinvolge chiunque, compresa la Sigourney Weaver che fu protagonista dell’epopea e che per lui tornerà a rivestire i panni della sopravvissuta. Neill ha un passato solido e un futuro promettente, l’unica cosa che potrebbe fermarlo è un attentato ordito da tutti i felici possessori degli astrusi cofanetti DVD di Alien che, per anni, si sono convinti di avere il cimelio definitivo sulla mensola del salotto.
-Walter Ferri-