Recarsi in carcere, anche solo per poche ore, non si discosta poi di molto da una spedizione nei meandri di qualche dungeon abbandonato. Si è costretti a mettersi in cammino per qualche luogo remoto e mal collegato, come le periferie delle nostre città, dove non sempre le condizioni sociali sono eccellenti, il rischio di incontri sgraditi lungo la via si fa pericolosamente concreto, e dove i PNG, la stragrande maggioranza della popolazione, preferisce non spingersi.
Si arriva in questo luogo isolato, sporco, e a volte anche diroccato. Occorre superare l’attento scrutinio dei custodi, varcare una porta, e poi un’altra, e poi un’altra ancora: porte tanto massicce che nemmeno il più forzuto degli avventurieri potrebbe sfondare, azionate da serrature automatiche, da qualche meccanismo celato che non si può vedere né certamente controllare. E così via, sempre più giù nel ventre della struttura, dove la luce del sole (sebbene continuino a esserci delle finestre) sembra sempre meno luminosa, tra persone che si intravedono a malapena e le cui storie si possono solo immaginare.
No, dopo qualche minuto tra i corridoi e le celle di una prigione, l’impressione è veramente simile a quella di un dungeon: forse è per questo che mi stupisco poco quando mi giunge notizia che in chi vi è costretto a rimanere per settimane, mesi, e anni, sorga il desiderio di uscire da quelle quattro pareti fisiche per andare a esplorare una realtà diversa, come quella offerta dai giochi di ruolo.
Sulla questione se n’è parlato parecchio, anche abbastanza di recente: detenuti che, con notevole dedizione e invidiabile creatività, si sforzano in tutti i modi di organizzare e portare avanti sessioni e campagne all’interno di stringenti limiti, sia fisici che temporali, talvolta scontrandosi con le logiche repressive dei vari sistemi detentivi.
Sotto molti punti di vista, il gioco di ruolo rappresenta il passatempo ideale per un istituto penale: si tratta di un’attività limitata per forza di cose a un gruppo ristretto di persone (facilmente controllabile dal personale di sicurezza), che non richiede implementi potenzialmente pericolosi per essere giocato, e soprattutto incentivante numerose abilità psicologiche (la cooperazione, l’assunzione di prospettiva) fortemente indirizzate a una dimensione di pro-socialità.
Nonostante questo, molto è stato detto a sfavore della possibilità di concedere ai detenuti di dedicarsi all’attività specifica dei giochi di ruolo: è il caso, ad esempio, di Kevin Singer, carcerato del Wisconsin, costretto a far causa alla propria struttura di detenzione, responsabile di aver confiscato del materiale da gioco di sua proprietà. Discorsi simili possono essere fatti per diversi altri stati USA, dove l’autorità carceraria si difende facendo notare come la prigione nasca e sia intesa come un luogo di punizione per un comportamento illecito. Consentendo ai detenuti di divertirsi, che razza di punizione può essere?
Al di là della miopia di un simile ragionamento (come se poter giocare a D&D un paio d’ore al giorno riscattasse le altre ventidue trascorse in una cella), e anche mettendo da parte il complesso tema dei diritti umani (soprattutto per quanto concernerebbe il diritto allo svago dei detenuti minorenni), è forse importante ricordare come la funzione di un’istituzione carceraria non sia (o forse, non dovrebbe essere) tanto punitiva quanto riabilitativa. L’interesse della società, quando si costruisce una prigione, non è quello di innalzare un muro per far sentire più buono chi ne sta al di fuori, ma dare occasione a chi si trova dentro di maturare e superare le ragioni che lo hanno portato all’atto criminale. Quel che occorre chiedersi, dunque, è se il gioco di ruolo offra questa possibilità.
Certamente male non fa: come già chiunque ha spiegato (inclusi noi qui), non vi sono prove di effetti psicologici negativi connessi all’uso di giochi di ruolo, perché non ne esistono. Contrariamente a quanto alcuni operatori della sorveglianza (sempre nel contesto americano) sembrano sostenere, il modello regolistico che pone un giocatore (il master) in posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri (il party) difficilmente incoraggia la creazione di modelli sociali tipo banda, anzi: l’esperienza inclusiva del gruppo porta a trascendere forme di segregazione razziale e sociale, e a enfatizzarne altre di cooperazione, il tutto nell’interesse del raggiungimento di un obiettivo più elevato, un’abilità che, racconta Aaron Klug, game-master e detenuto della Sterling Correctional Facility in Colorado, tende a crescere sempre più col passare del tempo in un party.
L’isolamento, ci spiega lo psicologo cognitivo David Pearson, accresce l’utilizzo della fantasia, la ricerca di mondi altri all’interno della propria mente. Le conseguenze ultime, tuttavia, dipendono in larga parte dall’uso che si fa di questa capacità di astrazione accentuata: se da un lato può innescare una degenerazione verso la psicosi e la perdita di contatto con la realtà, dall’altra può stimolare un’attività piacevole dai duraturi effetti positivi, come attestano i risultati di una ricerca condotta dall’Università di Oslo (che potete leggere qua)
Il ritrovarsi in carcere testimonia, fin troppo spesso, di una vita dall’esito fallimentare, dove le possibilità di scelta sono apparse a un certo punto limitate, o comunque comprensive, alla sola condotta criminale. Escludendo buonismi spicci e fuori luogo, e tentativi di giustificazione-deresponsabilizzazione, è facile intuire come l’obiettivo principale del percorso di riabilitazione sia trasmettere come ritrovare, in una situazione di disagio, di sofferenza, di pericolo, una risposta alternativa: e in tal senso, pochi sono i passatempi in grado di stimolare la stessa creatività del trovarsi in cinque, penne alla mano, attorno a un tavolo da gioco.
–Federico Brajda–