Come si uccide un dio?
Tralasciando momentaneamente la soluzione Kratos di God of War (applicazione di un quantitativo adeguato di violenza), si tratta di una domanda che tende a ripresentarsi nell’opera di numerosi autori, fantasy e non. Tema ricorrente, in questi casi, è quello del rapporto tra fede e potere (o forse, tra potere e illusione dello stesso); un’interpretazione classica del tropo pone in relazione la salute di un culto (e la divinità che esso rappresenta) col livello di adorazione dei suoi seguaci umani: un dio, parafrasando Erikson, muore assieme al suo ultimo fedele. Ma se il dio in questione non avesse tutta questa voglia di morire? In quel caso, converrebbe rivolgersi a Neil Gaiman.
Gli appassionati di fumetti probabilmente già conosceranno l’autore britannico (parte della british invasion degli anni ’80 che portò sulla scena americana autori come Morrison, Delano e Alan Grant) per la serie “Sandman” della Vertigo, ma non possiamo certo dimenticarci della sua carriera da scrittore, vantante, tra le altre, una collaborazione con Terry Pratchett (“Buona Apocalisse a tutti!”, Mondadori, 2007).
Ad attirare la nostra attenzione in questo caso è, però, “American Gods”, libro del 2001 (arrivato in Italia solo a partire dal 2003, sempre per la Mondadori) che, dopo aver raccolto l’approvazione della critica (premi Stoker, Hugo, Nebula) e del pubblico, si accinge a debuttare nel 2017 sul piccolo schermo, come serie televisiva prodotta dalla Starz (già dietro al pregevole adattamento de “I pilastri della Terra” di Ken Follett).
I lavori in corso al riguardo proseguono dal 2014, a seguito di una lunga e intricata trattativa (ai tempi si parlò anche di un interessamento da parte della HBO…), e sono culminati in questi giorni col rilascio di un trailer che ha preso a rimbalzare da una parte all’altra della rete. Tra riprese in esterna tra la più sperduta e desolata campagna degli States e toni onirici e surreali, l’impressione finale è una via di mezzo tra “Supernatural” e “True Blood” (se sia un complimento o meno, preferisco lasciare voi a deciderlo), con un pizzico di “True Detective” giusto per gradire. Varrà la pena dargli una possibilità?
Se dobbiamo metterci in cerca di qualche indizio, un buon punto di partenza è indubbiamente il libro, che per originalità della premessa e maestria della resa merita decisamente il posticino di onore che ha occupato tra le uscite degli ultimi anni.
Non è facile applicargli qualcosa di limitante come un’etichetta di genere: a metà strada tra l’horror, lo urban fantasy, il thriller e (in alcuni punti) il dramma storico, lo potete considerare una risposta seria a “La lunga oscura pausa caffè dell’anima” (Douglas Adams, Mondadori, 2011), una riflessione sull’evoluzione e modernizzazione del concetto di mito, o una metafora dell’immigrazione americana.
Protagonista della vicenda è Shadow: un uomo (più o meno) buono ritrovatosi in prigione per (numerose) decisioni sbagliate. Un signor nessuno, che sogna solamente una vita tranquilla di onesto lavoro con accanto la propria moglie, e che vede il mondo crollargli addosso quando, in occasione della sua scarcerazione, gli viene comunicato il decesso della donna in seguito a un incidente stradale.
Sul volo verso casa conosce, quasi per caso, un attempato truffatore che si fa chiamare semplicemente signor Wednesday (“è il mio giorno…”), il quale immediatamente gli offre un lavoro come guardia del corpo. Shadow accetta di accompagnare l’uomo in giro per gli Stati Uniti, scoprendo solo troppo tardi di essersi ritrovato in un conflitto decisamente più grande di lui.
Gli dei, l’abbiamo detto, vivono delle preghiere e dell’adorazione dei comuni mortali: ma oggi, in questo tempo e in questo luogo, preghiere e adorazione sono merci rare, riservate a cose più importanti come Internet, la Televisione, il Denaro. Sono questi i nuovi dei, i signori della scena, decisamente non intenzionati a condividerla con i loro predecessori. Questi ultimi, poi, sono un’allegra banda di (più o meno) disadattati: vengono da tutto il mondo, portati da chi ha inseguito il sogno americano (o ha vissuto suo malgrado l’incubo della schiavitù), e come tutti gli altri immigrati hanno imparato a ritagliarsi un proprio, umile angolino nella società del Nuovo Mondo. Niente di troppo dignitoso, eh (persino il grande Anubis può vedersi retrocesso a umile impresario di pompe funebri…), giusto quel che serve per tirare avanti…
La maggior parte si è ridotta all’apatia, ma ci sono anche quelli che non sono disposti ad andarsene senza combattere: toccherà anche al povero Shadow cercare di radunare tutti per lo scontro finale. O forse no?
Forse la partita è molto meno chiara di quanto non appaia, è difficile esserne certi. Del resto, i giochi truccati sono i più facili da vincere….
– Federico Brajda –