Non tutti in Italia conoscono la Gen Con, anzi, è normale che forse ben quattro dei nostri lettori non ne abbiano mai sentito parlare. Si tratta di una delle più grandi fiere ludiche del mondo intero: giochi di ruolo, giochi di carte, wargame di ogni fattezza e origine sono passati per quei padiglioni a partire dagli anni ’60. Da allora le cose sono cambiate, l’evento si è ingrandito, si è moltiplicato e, come un’idra con troppe teste, è finito col collassare su se stesso nel 2006, preferendo concentrare le energie rimaste nella città di Indianapolis. Si tratta di un luogo estremamente lontano dalle nostre sponde, e la popolarità dell’evento non è certo tale da competere con quella del celebre circuito automobilistico che li si snoda, ma da bravi nerd teniamo d’occhio anche questa esposizione e siamo rimasti profondamente colpiti dalle recenti dichiarazioni del portavoce Adrian Swartout. Lo scorso mese, infatti, il CEO di Gen Con ha inoltrato una pepata lettera al governatore dell’Indiana, Mike Pence, ricordandogli la mole di introiti generata ogni anno dalla fiera e del fatto l’organizzazione fosse pronta a trasferirsi qualora non si fossero prevenute certe incompatibilità politiche.
“Incompatibilità politiche” è un eufemismo, in effetti, considerando le novità legislative promulgate nello Stato dell’Indiana. Un mese fa la situazione era ancora da decidere e lo staff di Gen Con sperava di prevenire la cosa, ma ormai il dado è tratto e le carte sono firmate, il Religious Freedom Restoration Bill (RFRB) sarà parte integrante della legge statale a partire da giugno. Messa così, soprattutto agli occhi di chi non padroneggia il sistema legislativo americano, la cosa vuol dire poco e niente, ma le conseguenze sono drastiche e surreali.
Questo genere di atti hanno preso piede decenni fa, quando il governo Clinton del 1993 deliberò tramite una legge federale la possibilità per i nativi americani di fumarsi il peyote, il “pane degli dei” notoriamente allucinogeno, senza incorrere nelle punizioni inferte dal lungo braccio della giustizia. Il governo, che fino ad allora considerava la legge come superiore a qualsiasi Credo, aveva dimostrato un’apertura nei confronti degli usi tradizionali religiosi, chiudendo un occhio su tutte quelle abitudini che non cozzavano direttamente con la sopravvivenza del paese.
Quanto dettato da Clinton, con gli anni, ha perso di contesto e potere, ma molte zone U.S.A. hanno deciso di ritoccarla e ufficializzarla come legge di Stato per venire incontro alle necessità del popolo multisfaccettato e multiculturale che si mescola nel Nord America. Un esempio classico a cui si rifà anche Mike Pence, conservatore repubblicano, per difendere il proprio operato è quello di Obama, democratico liberal, che nel 1998, quando era governatore dell’Illinois, si era prodigato per rendere effettivo un codice molto simile a quello ora adottato dal suo avversario politico. Simile, tuttavia, è lungi dall’essere uguale o, addirittura, comparabile.
Mentre in Illinois sono presenti ferrei regolamenti che puniscono ogni forma di discriminazione inerente agli orientamenti sessuali, l’Indiana risulta del tutto impreparata su questo frangente, lasciando una voragine legislativa decisamente preoccupante. Arrivando al dunque, pertanto, la RFRB consente formalmente ai cristiani (ma anche a seguaci di altri dogmi) di riconoscere qualsiasi atteggiamento affine alla comunità LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) come contrario alla propria morale e di agire di conseguenza. Sebbene questo genere di norme sia solitamente applicato esclusivamente nelle situazioni in cui un privato viene soffocato dal governo, infatti, il partito del governatore Pence, influenzato dal recente caso giudiziario Burwell contro Hobby Lobby, ha compilato i moduli perché ogni azienda sia comparabile al privato cittadino. Il risultato è che i negozi (e non solo) avranno la possibilità di non servire la clientela omosessuale usando come scudo presunti insegnamenti religiosi.
Sarebbe bello poter credere che si tratti di un goffo quanto pericoloso equivoco e che il governo Pence non intendesse creare situazioni che ricordano pericolosamente i cartelli “è vietato l’ingresso ai cani, ai mendicanti, agli ebrei” affissi nella Berlino anni ’30, ma l’identità degli sponsor di partito dà spazio a maligni pensieri. Sebbene il governatore si sia sempre rifiutato di dichiararne l’identità, basta dare uno sguardo attento agli scatti effettuati in occasione dell’ufficializzazione della discussa legge per identificare diversi lobbisti noti per la loro posizione apertamente anti-LGBT. Costoro, crociati della famiglia di stampo classico, gioiscono apertamente sul web dichiarando al mondo intero le loro felicitazioni sul come gli innocenti fedeli cattolici potranno ora essere “difesi” dalle insidie di tutti i sostenitori delle famiglie omosessuali.
Questa linea di condotta non è andata bene a Gen Con che, assieme a altre 17 multinazionali di fama mondiale, ha deciso di far sentire la propria voce. Beh, forse non proprio Gen Con, considerando che pochi giorni dopo la prima missiva ne ha spedita una seconda per fare un notevole passo indietro. Gli organizzatori hanno discusso la cosa con i propri collaboratori e, probabilmente facendosi quattro calcoli in tasca, hanno deciso di rischiare discriminazioni riponendo piena fiducia nel giudizio dei singoli e pregando i propri fan di segnalare qualsiasi situazione spiacevole. Le scelte della fiera ludica ci hanno permesso solamente di conoscere la vicenda, ma il potere delle grosse industrie continua a fare pressione contraria ai finanziatori politici, incastrando il governatore dell’Indiana in una situazione spiacevole. A questo punto Pence già dichiara ai giornali di essere incappato in un’incomprensione e professa di voler “sistemare” le carte perché non avvengano situazioni spiacevoli, anche se nelle stesse interviste dichiara di non aver la minima intenzione di introdurre la difesa dei diritti civili riguardanti l’identità di genere e sesso, liquidando la cosa con un “non è presente nei miei progetti“.
La situazione è molto grave e non possiamo che simpatizzare con tutti coloro che stanno manifestando contro una legge che, usando come scusa la libertà, schiaccia i diritti di una minoranza. Nel piccolo del panorama italiano, nel 2013, erano diventate celebri le sfuriate di Guido Barilla che, incalzato da un intervistatore provocatorio, aveva rilasciato pesanti dichiarazioni discriminatorie, incitando il mondo omosessuale ad accettare le sue idee o acquistare i prodotti della concorrenza. E così è stato. Il contraccolpo della sua posizione è stato di tale impatto da fare rivedere molti dettagli gestionali della Barilla, azienda che ora risulta essere una di quelle maggiormente impegnate nel campo dei diritti LGBT. Che sia stata una forma di compensazione un po’ ipocrita o un cambiamento genuino non sta a noi giudicare, ma resta il fatto che la comunità – e non solo quella omosessuale – ha fatto sentire la sua voce, facendo la differenza.
La corrente situazione dell’Indiana non è certo promettente. La Religious Freedom Restoration Bill concederebbe agli esercenti di imporre paletti umilianti anche per le cose più piccole, quali l’impedire ai transgender di accedere ai sanitari di propria preferenza (al che ci viene da suggerire all’onorevole Gardini un trasferimento in terra straniera), dimostrando un’aggressività che non fa neppure lo sforzo di mimetizzarsi a scelta civica. Confidiamo che le pressioni dei poteri economici convincano il governatore che l’omosessualità non sia al pari di una malattia infettiva da mettere in quarantena, anche perché seguendo questa china lo stato in questione finirebbe con l’avvicinarsi ad atteggiamenti poco dissimili dalla linea di condotta di Putin, personaggio politico noto per la sua animosità sull’argomento.
– Walter Ferri –