La fantascienza, come tutte le altre forme di fantastico, è un modo per parlare non di motori a curvatura e raggi laser, ma di chi siamo. La sci-fi scritta male è prevedibile e assertiva: solo quella ben scritta è capace di aprire squarci di futuro vero, di mettere in riga e rendere comprensibili ai lettori i processi storici, sociali, tecnologici e psicologici dell’umanità nel momento preciso in cui stanno accadendo (come le scienze stesse non sono ancora capaci di fare). Un romanzo di fantascienza capolavoro ti sfida a un salto nel buio, ti costringe al pensiero laterale e a ragionamenti non-euclidei, ti sbatte fuori dalle pigre e rassicuranti pastoie del pensiero attuale. Pochi romanzi hanno avuto questo effetto nella mia esperienza di lettore di sci-fi: posso ricordare Farenheit 451 di Bradbury, Il Sole Nudo e Notturno (il racconto) di Asimov, qualcosa di Huxley e di Dick e poco altro. Da oggi, posso annoverare nella categoria anche questo Embassytown di China Miéville, romanzo del 2011 da poco tradotto in italiano ed edito a cura di Fanucci.
China Miéville è un autore inglese di quella tendenza che lui stesso ama definire new weird, in omaggio agli scrittori delle riviste pulp e weird degli inizi del secolo scorso, e che cercano per loro stessa ammissione di liberare fantasy, sci-fi e horror (elementi a vario titolo presenti nei suoi romanzi, mai facilmente ascrivibili ad un unico genere) dai cliché e dalle banalità nei quali, a loro dire (e non senza qualche ragione), sono da tempo imprigionati. Miéville è inoltre noto per le sue idee di sinistra e l’impegno politico appassionato, che spesso traspaiono nelle sue opere. Embassytown, con le sue riflessioni sul linguaggio e l’incomunicabilità, pur in modo più sfumato e riconducibile (almeno formalmente) ad un approccio sci-fi senza troppe contaminazioni, non fa eccezione.
SINOSSI
Il pianeta Arieka, ai margini dell’universo conosciuto, è stato colonizzato dall’umanità grazie alla possibilità di viaggiare nell’Immer, un mare dimensionale che connette mondi a distanze incommensurabili tra loro. Avice Benner Cho, impiegata su una nave da trasporto nell’Immer, è nata ad Embassytown, città nella quale si incontrano gli esseri umani e gli Ariekei, specie senziente xenomorfa con una peculiare struttura linguistica: essi infatti non possono descrivere ciò che non sia reale, essendo del tutto estranei ai concetti umani di mistificazione, bugia e fantastico. Per questo motivo hanno bisogno delle “similitudini viventi” per provare concetti mai sperimentati nella realtà, ovvero persone che mettano in atto le situazioni che poi gli Ariekei devono esprimere. Il ritorno di Avice su Embassytown scatena nella colona il ricordo di quando lei stessa è stata una similitudine vivente, e coincide con l’arrivo di un nuovo Ambasciatore (gli unici esseri umani che possono comunicare con gli alieni nella loro lingua) che spezza il fragile equilibrio tra le due specie.
LINGUA, ULTIMA FRONTIERA
Embassytown è un romanzo incentrato sulla comunicazione, sul linguaggio, sulle sue ambiguità e sul potere che hanno le parole di plasmare società, rapporti e, in ultima analisi, il nostro essere più profondo. Il romanzo parte con una scena introduttiva molto immersiva, e procede con una struttura alquanto peculiare: i primi tre capitoli costituiscono quello che l’autore stesso definisce Proemio, riguardanti l’infanzia della protagonista ad Embassytown, che introducono il lettore all’ambientazione nella quale si muovono i personaggi. Successivamente si procede invece in base a un’alternanza di capitoli Ricordo datato/Ricordo recente, che completano il worldbuilding e la comprensione della situazione politica, culturale e sociale di questo mondo così ambiguo ed estraneo all’esperienza del lettore. Scelta sicuramente apprezzabile, perché snellisce la struttura senza far perdere efficacia alla comprensione, e nel frattempo scongiura il rischio di tempestare il lettore con la marea di informazioni che una narrazione più canonica avrebbe comportato. Da metà in poi il romanzo riprende una struttura più lineare ma non meno avvincente, costruendo un climax mozzafiato intorno alla paranoia, ai sospetti, alle tensioni e agli intrighi che comporta uno sbilanciamento linguistico e sociale nel fragile equilibrio umanità-alieni sul pianeta Arieka.
“Originalità” è la parola chiave di Embassytown. Gli spunti peculiari sono molteplici: dall’Immer, sorta di “Iperspazio” con risvolti marinareschi, simbolici e teologici tutto in uno, alla audace e devastante riflessione sul linguaggio che costituisce il nucleo vero e proprio del romanzo; ma non dimentichiamo l’impressionante efficacia delle parole come strumento per il mantenimento dello status quo sociale, politico e soprattutto esistenziale, quando i significati sono chiari e condivisi, e all’opposto la carica eversiva e liberatoria, ma allo stesso tempo portatrice di caos e dipendenza, quando invece la struttura di una lingua diventa più ambigua e sfumata. Va detto che alcuni spunti altrettanto interessanti, che avrebbero meritato a mio parere di essere approfonditi, sono finiti un po’ nel dimenticatoio.
STILE
Lo scoglio più grande che un lettore possa trovare durante la lettura di Embassytown, oltre a una certa lentezza generalizzata della prima parte del romanzo (che però non sfocia mai nella noia o nella frustrazione) è sicuramente costituito dalla scelta di non bombardare sin dall’inizio chi legge con informazioni su Arieka, gli Ospiti, l’Immer e quant’altro, centellinandole invece lungo tutta la prima metà del romanzo. Ciò, unito al lessico pieno di neologismi e strutture inventate per esprimere l’indicibile, possono rendere poco chiari al lettore alcuni concetti e situazioni del libro, soprattutto nella prima parte. In questa prospettiva un plauso va a Federico Pio Gentile, che si è occupato della traduzione italiana riuscendo, all’interno di un lavoro sicuramente non usuale e dai molteplici problemi linguistici, a non tradire l’essenza del romanzo: fate parlare lui con gli Ariekai!
– Luca Tersigni –
‘Embassytown’ di C. Miéville – Recensione
Luca Tersigni
- Uno dei romanzi sci-fi più originali degli ultimi anni;
- Avvincente e ben scritto;
- Riflessioni scottanti sul potere che la parola ha nel plasmare tutto, dal nostro essere fino alla società;
- Il ritorno della distopia adulta, finalmente;
- Curva di “apprendimento” inizialmente ostica;
- Alcuni spunti avrebbero davvero meritato un po’ di spazio in più;