All’eterogeneo novero di cine-libri (sempre in espansione) si è aggiunto negli ultimi giorni “Maze Runner – La Fuga”, seconda prova cinematografica per Wes Ball (già dietro alla regia di “Maze Runner: Il Labirinto”) ispirata ai romanzi dell’omonima serie di James Dashner (l’edizione italiana è curata dalla Fanucci); noi di Illyon naturalmente non ci siamo tirati indietro dall’onere di andare al cinema per offrirvi il nostro erudito parere al riguardo.
In una parola, “La Fuga” è mediocre: la pellicola non mostra particolari criticità e nel complesso risulta anche apprezzabile, ma tutt’altro che memorabile: due ore di corse, fughe, inseguimenti sullo sfondo di apocalittiche ambientazioni (invero, piuttosto pregevoli) fino a una conclusione affrettata (nonostante i cento e oltre minuti di film precedenti), mal orchestrata, e decisamente poco incisiva.
Il difetto principale del film lo si può riscontrare nel titolo, o meglio ancora nella domanda: “Perché chiamare qualcosa “The Maze Runner”, se di labirinti non se ne vede neanche l’ombra?” Tale domanda ci porta inevitabilmente a chiederci: “Cos’è che ci è piaciuto del primo titolo?” Forse l’anemica recitazione di Dylan O’Brien (Thomas), l’incapacità di generare una benché minima reazione chimica tra lui e Kaya Scodelario (Theresa), o la perizia di Thomas-Brodie Sangster (Newt, ma lo conosciamo anche come Jojen Reed) di apparire in due differenti franchise mantenendo inalterata la propria interpretazione di ragazzino saccente dall’aria inquietante (nel caso, rallegratevi: ritornano tutti e tre gli elementi)? O forse erano la situazione surreale in cui i protagonisti erano immersi, l’organizzazione della società dei Radunari e le soluzioni, tra il fantasioso e il disperato, a cui ricorrevano per affrontare la follia della loro esistenza quotidiana?
E se il punto forte del primo titolo era il Labirinto stesso, sia come antagonista che come ambientazione, il secondo risulta carente e poco fantasioso nelle novità che introduce, offrendoci degli zombie general-generici, un’oscura agenzia pseudo-governativa sanitaria e/o paramilitare (la stupidità del cui nome rivaleggia solamente con quella dei suoi addetti alla sicurezza), e un mondo devastato da una desertificazione imperante, la cui mancanza di personalità risulta tanto più tragicamente evidente dal confronto con “Mad Max: Fury Road” (qui la nostra recensione) ancora ben presente nelle nostre menti facilmente impressionabili.
Sopra a questa sottospecie di fan-fiction di “Resident Evil: Extinction” (che, diciamocelo, come film diventa accettabile solo quando pensiamo a quelli della serie che lo hanno seguito) si innestano le avventure degli allegri compagni di Thomas, un gruppo di giovani adulti la cui diversificazione etnica all’insegna del politically correct è di per sé apprezzabile perché vi farà tornare in mente le avventure di Capitan Planet: dopo la conclusione-rivelazione de “Il Labirinto”, li troviamo dapprima alle prese con Aidan Gillen (che, seguendo l’esempio di Sangster, ci ripropone per il suo personaggio pressoché la stessa interpretazione di Ditocorto) e quindi impegnati in una serie di imprese che si riassumo in “andare dal punto A al punto B” per circa una sessantina di minuti. A peggiorare le cose, vi è la scelta del regista di non affrontare il tema delle relazioni tra i personaggi: abbiamo degli amici che hanno attraversato l’inferno assieme e che dimostrano gli uni per gli altri lo stesso cameratismo di un vagone della metropolitana (seriamente, c’era più pathos nell’allenamento tra Boromir e gli hobbit ne “La Compagnia dell’Anello” che in tutta “La Fuga” messa assieme), per non parlare della surreale mancanza di attenzioni che gli pseudo-adolescenti (vissuti in condizione di totale astinenza per un numero imprecisato di anni) riservano all’unico membro femminile della brigata (salvo un tenue accenno prontamente castrato dal cock-blocking attivo di Newt – presumibilmente una memoria somatica di quando teneva Brandon Stark lontano da Meera), che raggiunge livelli tragicomici nei momenti di flirt (sì, quelli non mancano) tra Thomas e Theresa. Ora, sarei anche ben felice di ignorarli (in effetti, si vive bene la loro totale assenza), se non fosse che successivamente mr. Ball tira fuori dal cappello del regista un secondo personaggio femminile con il quale si va a strutturare un proto-triangolo sentimentale (a questo punto sospetto che sia un obbligo contrattuale per gli scrittori di romanzi per giovani adulti), che si ritrova a oscillare tra il ridicolo e l’umiliante per i personaggi coinvolti.
A sostenere il crepato impianto narrativo intervengono però due elementi: in primo luogo, la regia (che pure ha i suoi momenti di svista e forzature palesi della sospensione all’incredulità), la quale si dimostra più che adatta a gestire i momenti di tensione, e in particolare le fughe e gli inseguimenti (il che è positivo, visto che ci sembra costituiscano un ottanta percento dello screen time), con tagli serrati, ritmo sostenuto, e una magistrale coreografia nel suo complesso; in secondo luogo, il mio parere si trova a cozzare con il giudizio degli utenti: tutti i limiti della pellicola sopra elencati (pur presenti oggettivamente), semplicemente non hanno interessato per nulla il pubblico in sala, i cui giudizi al riguardo possono essere definiti unicamente come entusiasti. Si tratta dunque di una grande abilità (o forse fortuna) del regista nel leggere e intercettare le richieste di un target di riferimento molto specifico (la maggioranza della sala era occupata dagli under 18), più che compiacente a chiudere un occhio o forse due su diversi punti deboli per vedersi garantite sul grande schermo le vicissitudini dei propri beniamini cartacei.
– Federico Brajda –
Maze Runner – La Fuga: la recensione
Federico Brajda
- Scenografia di alto livello, regia altalenante (ma generalmente positiva) nella scene più concitate;
- Notevole apprezzamento a livello di pubblico: chi siamo noi per andare contro la vox populi?
- Narrazione scorrevole, nonostante la durata il film rimane gradevole e privo di tempi morti;
- Interpretazioni non eccellenti da parte di elementi centrale del cast;
- Ridotta originalità del materiale: non ci sono idee veramente buone o particolarmente innovative;
- Trama piuttosto debole nel suo complesso e, a lungo andare, ripetitiva;