In generale, qualsiasi opera narrativa mai creata si basa sull’incertezza e sull’errore. Provate immaginare un film dove ogni singolo personaggio svolge il proprio lavoro alla perfezione e tutto procede secondo i piani: non solo durerebbe cinque minuti, ma sarebbe anche di una noia mortale. A nessuno interessa veramente sapere quanto perfetta sia la vita dei protagonisti: per essere definito tale, si presuppone che un eroe affronti delle sfide legate a un rischio.
Quando prendiamo in mano un libro del nostro autore preferito, ci aspettiamo che quest’ultimo si sia impegnato per coinvolgerci nelle peripezie dei propri personaggi. Per i giochi di ruolo vale un discorso simile, ma leggermente diverso: la co-creazione di una storia appassionante è un elemento fondamentale e irrinunciabile, ma è irrealistico aspettarsi un party di gioco composto da Robert Jordan, Patrick Rothfuss, Brandon Sanderson e J.R.R. Tolkien (con George Martin a fare da master). Più spesso i nostri compagni di avventure possiedono doti artistiche amatoriali, e lasciati a loro stessi potrebbero cadere nella sindrome (che forse gli scrittori esordienti riconosceranno) del personaggio perfetto: quello che sa tutto, fa tutto, e supera ogni scontro, trappola o tranello, senza alcuna difficoltà. Ciò porterebbe ad avventure piatte, con poco senso e ancor meno emozioni.
Se da un lato abbiamo quindi sistemi di regole che creano una sorta di bilanciamento, dall’altro la maggior parte dei giochi ammettono una componente aleatoria che sfugge al controllo di tutti, finanche del master, per determinare l’esito delle situazioni di tensione. Tradizionalmente, tale aliquota di casualità si esercita tramite un sistema di generazione casuale: tra tutti, quello di gran lunga più diffuso è il lancio di un dado.
Senza andare a scomodare le stramberie che giacciono tra la sfera del d1 e il triacontahedron di Disdyakis del d120 (che non ho la più pallida idea di cosa sia, ma sospetto venga usato da Cthulhu per giocare a Houses & Humans), quando si parla di giochi di ruolo abbiamo di solito una combinazione dei sei tipi di dado fondamentali: a quattro, sei, otto, dieci, dodici, e venti facce (d4, d6, d8, d10, d12, d20). Queste sono sufficienti a sostenere un numero pressoché infinito di sistemi differenti, dal versatilissimo GURPS allo Storytelling System di Vampiri: la Masquerade, passando per Hero System e Savage Worlds. Accanto ad essi si trovano anche prodotti di elevatissima qualità come Sine Requie e l’Amber Diceless Roleplaying System, che dei dadi fanno invece a meno, sostituendoli rispettivamente con l’estrazione da un mazzo di carte o l’arbitrio del master: questi rappresentano una minoranza, sia in termini numerici (meno sistemi), sia di notorietà.
Le ragioni del successo dei dadi sono svariate: si tratta di un sistema statisticamente versatile e equo, sono semplici e rapidi da utilizzare, economici da produrre, e duraturi. Consentono di dirimere in poco tempo situazioni complesse, evitando qualsiasi recriminazioni. Tra tutte le tipologie di dado, tuttavia, ve n’è una che, in materia di giochi di ruolo, supera tutte le altre per fama: parliamo dell’icosaedro regolare convesso altrimenti noto come d20, eponimo di ben due sistemi di gioco differenti e vera e propria icona di Dungeons & Dragons, l’archetipo stesso del role-playing game.
La leggenda narra che, all’alba dei tempi, quando D&D ancora si chiamava Blackmoor ed era nel limbo della pre-pubblicazione, esso prevedesse l’utilizzo di d6, finché un giorno David Wesley (considerato da alcuni l’inventore del concetto stesso del moderno gioco di ruolo) non mostrò a Gary Gygax l’immagine di d20 reperita su un catalogo per forniture educative: il papà di Dungeons & Dragons apprezzò a tal punto il geometrico artefatto che pensò bene di implementarla nella propria opera magna (altri raccontano che Dave Anderson, collaboratore di Gygax, recuperò una manciata di d20 in un negozietto londinese nel corso di una vacanza in Inghilterra, e li considerò adatti, a causa del loro aspetto inconsueto, per un gioco basato su magie e misteri).
In generale, la diffusione del d20 è stata fin dall’inizio legata a doppio filo a quella di Dungeons & Dragons: la maggior parte dei giocatori (o meglio, di quelli a cui interessa la storia dei propri giochi) concorda, ad esempio, nell’affermare che la diffusione su larga scala del primo coincida con la seconda metà degli anni ’70 e con l’uscita della prima edizione di D&D.
Già questo di per sé spiega buona parte della diffusione del dado: parliamo infatti del sistema di gioco più famoso del mondo, quello che per i non-appassionati è sinonimo stesso del concetto role-playing game, con il quale è più probabile che i neofiti si confrontino in occasione della propria prima esperienza ruolistica. Poiché gli esseri umani sono creature abitudinarie, poi, generalmente apprezzano di rimanere fedeli a qualcosa di conosciuto e di comprovata efficacia, e difficilmente si metteranno in cerca di esperienze radicalmente differenti (a meno che non intervengano delle cocenti delusioni). Capita dunque che, in seguito a una generalmente positiva prima esperienza con il sistema d20, i giocatori mantengano a lungo un occhio di riguardo nei suoi confronti, anche dopo essersene allontanati in favore di sistemi più “realistici” o “bilanciati”.
Ma qual è il valore del dado al giorno d’oggi? Nella sua essenza più pura, esso è un “programma” per la generazione di numeri casuali, rudimentale e primitivo, ma non differente nelle proprie funzioni da innumerevoli applicazioni per smartphone (o anche banali calcolatrici scientifiche). Che senso ha, al giorno d’oggi, aggrapparsi a una tradizione che risale a circa cinque millenni fa?
Ebbene, il gioco di ruolo è, prima di tutto, immaginazione: questo è il suo punto di forza, ma anche la sua più grande debolezza. Se da un lato non pone alcun limite concreto al suo esercizio, se non l’immaginazione, dall’altro fornisce ben poche soddisfazioni nel concreto agli appassionati. Stringere nel palmo un dado, udirne l’inconfondibile rollio sul piano di gioco: queste sono le sensazioni che delimitano nel concreto l’esperienza di gioco. Chiedere a un giocatore di farne a meno, sarebbe come chiedere a un navigato guerriero di lasciare a casa armatura e spadone, prima di lanciarsi in una nuova avventura.
– Federico Brajda –