Pensiamo alla trilogia di Star Wars (l’unica vera trilogia, ’77-’83): capolavoro, certo, ma lascia in sospeso alcune questioni. Perché le astronavi volano nello spazio come se ci fosse un’atmosfera? Come si accede all’iperspazio? Come funziona una spada laser? Prima che qualche appassionato insorga, citandomi qualche sacra scrittura dell’universo espanso, faccio presente due cose: primo, nei film nessuno risponde a questi interrogativi e, secondo, a nessuno importa. A nessuno interessa, perché non si va a vedere Star Wars per ragionare sulle possibili implicazioni etiche e sociali di una tecnologia verosimile: si va perché ci sono dei cavalieri spaziali che volano e parano i colpi di armi laser come fossero palline da ping-pong. Più che fantascienza vera e propria, Star Wars è uno space-fantasy (e, al riguardo, vi rimando all’interessante analisi del nostro Stefano), ossia un’opera di assoluta fantasia, dove la fisica e l’ingegneria funzionano in qualsiasi modo gli autori decidano essere figo e funzionale alla trama. Proprio come la Magia di un fantasy vero e proprio.
Arthur C. Clarke (autore della serie di Odissea nello Spazio), nell’antologia Profiles of the Future cita tre Leggi, la terza delle quali, di gran lunga più famosa, recita così: “Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. Più ci allontaniamo dal presente, dal quotidiano, dal conosciuto, più i limiti del possibile e dell’impossibile divengono sfumati: si accresce la sospensione dell’incredulità, e diminuisce la necessità, per l’autore, di scervellarsi in dettagli tecnici per far quadrare il tutto. Su un continuum che va dallo storico, al tecno-thriller contemporaneo fino alla soft-science fiction, il grado di arbitrarietà dell’autore nel decidere le leggi del proprio universo aumenta, fino ad arrivare al fantasy, dove abbiamo un mondo secondario completamente avulso da quello primario (il nostro), in cui, sostanzialmente, può succedere di tutto.
Ora, questo non è un male, anzi: è proprio la capacità di astrazione che ci porta a prendere in mano un Signore degli Anelli piuttosto che un manuale di fisica applicata. Quello che vogliamo sapere è come finirà il viaggio di Frodo, trovare la Spada di Shannara, assistere allo scontro finale tra Harry e Voldemort. Nessuno si fermerà mai a metà di una lettura per chiedersi come faccia il ghiaccio della Barriera a non fondersi sotto il suo stesso peso o quanto incida sull’entropia universale il Fuoco Malefico di Rand al’Thor. E se pure qualcuno lo facesse, quale sarebbe la risposta? Chi se ne frega, è Magia! Funziona perché così ha voluto l’Autore, e fa esattamente quello che l’Autore dice che faccia.
Se quindi gli autori di fantascienza non possono prescindere da un background scientifico, la strada per scrittori e sceneggiatori fantasy è in apparenza più semplice: non servono mesi di ricerche per cercare di far quadrare una trama. Questo personaggio dovrebbe essere dall’altra parte del mondo? Ecco un Bastone del Teletrasporto! Il combattimento è bello, ma il cattivo in questo modo muore a pagina cinque? Magari aveva una Pietra dell’Immortalità nascosta nei pantaloni! Tuttavia, la Magia, si sa, è un’arma a doppio taglio: può rendere la vita molto più facile, ma può condurre sul sentiero oscuro della Mancanza di Coerenza Interna.
Quando scriviamo di fantascienza, o comunque un’opera aderente in una certa misura alla realtà, ci sono alcune cose che il lettore si aspetterà: gli oggetti cadono verso il basso, se sei morto non puoi tornare in vita, e via dicendo. Alcuni di questi aspetti sono talmente pervasivi della nostra percezione del mondo che sono irrinunciabili persino nei fantasy. Rispettarli vuol dire mantenere un elevato grado di coerenza esterna, a vantaggio del lettore. Se io sento che un’opera è in una certa misura un riflesso del reale, posso produrre delle aspettative legittime su quello che accadrà. Il Mondo dei Maghi di Harry Potter è strano, ma Hogwarts è pur sempre una scuola, e non ho bisogno che me lo dica la Rowling per capire che è Silente (o Dumbledore, a seconda dei traduttori) a spiegare le cose a Harry, e non il contrario.
La Magia, tuttavia, permette di giocare con le regole della logica e della realtà, per creare sorpresa e stupore nel lettore: “Gandalf è morto! No, anzi, ha solo livellato.” Colpo di scena! Il lettore non ha nessun motivo ragionevole per credere che Gandalf possa tornare in vita: quando succede, ne sarà stupito. Ora, tutto questo va bene, finché non se ne abusa. Che Gandalf torni in vita è bello, ma se resuscitassimo anche Boromir e Theoden, d’altro canto, distruggeremmo il senso dell’opera, e a nessuno importerebbe di sapere cosa capita ai personaggi: nel peggiore dei casi, li respawnano.
Peggio ancora che abusare di un dispositivo magico, è utilizzarlo in maniera arbitraria. Caso celebre: la Giratempo di Harry Potter. I maghi hanno un artefatto che permette di tornare indietro nel tempo… tranne quando non ce l’hanno, visto che lo utilizzano una sola volta nel corso dell’intera serie (se va bene usarlo perché una ragazzina segua dei corsi extracurricolari, direi che un Signore Oscuro a piede libero mi pare un motivo sufficiente per rischiare di compromettere la struttura spaziotemporale). E questo è solo un esempio: a prescindere dalla bellezza, profondità, e capacità narrativa dell’autrice (che qua non si stanno mettendo in dubbio), il mondo dei libri di Harry Potter è estremamente arbitrario nel decidere cosa la Magia sia e come funzioni.
Quando oggetti, creature e incantesimi sono introdotti e definiti in corso d’opera, il lettore rimane avvinto in una maelstrom di sorprese, dove si corre il rischio di compromettere la coerenza interna: di violare le leggi che regolano l’esistenza del mondo secondario che l’Autore ha creato. A lungo andare, ciò può produrre un effetto collaterale, quello di spaesare e irritare il lettore. Esso è infatti costretto ad adeguarsi continuamente a una situazione connotata da instabilità cronica, in cui non solo deve seguire le peripezie del protagonista, ma rinegoziare le proprie aspettative su quello che realisticamente può aspettarsi che succeda da un momento all’altro.
Naturalmente, quando prendiamo in mano un libro fantasy, non vogliamo leggerci un trattato di metafisica teoretica. La Magia è l’essenza del mutamento, ci spiegano i seguaci di Tzeentch, e si presenta in molte forme e in molti modi: chi può dire, veramente, cosa possa o non possa fare?
Abbiamo universi come Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, dove la magia è qualcosa di oscuro, misterioso, e generalmente molto pericoloso, e le ambientazioni di Pathfinder e Dungeons & Dragons, dove la magia è un bonus +1 alla mia spada che qualsiasi mercante di una cittadina medio-grande può vendermi. È interazione diretta con il mondo reale, come la Folgoluce di Brandon Sanderson e le due metà dell’Unico Potere di Robert Jordan, e incontro con l’ignoto e patteggiamento con le forze infere, come in Jonathan Stroud e Joe Abercrombie. Su alcuni mondi (Conan il Barbaro) praticamente nessuno è mago, salvo eccezioni assai poco raccomandabili, su altri di maghi ne trovi tanti al chilo (Geralt di Rivia), e su altri ancora anche l’ultimo dei peoni sa ricorrere alle arti arcane (Harry Potter).
Se la scienza si basa su delle leggi ineludibili, si potrebbe dire che la Magia è un insieme di eccezioni: eccezioni alle leggi della fisica, eccezioni al senso di realtà del lettore, eccezioni alle proprie stesse eccezioni, ed è giusto che sia così. Essa non risponde al nostro bisogno di conoscenza, ma a quello di stupore: come dice Martin in “Al mattino cala la nebbia”, è giusto che alcune domande non abbiano risposta, che non tutto quadri, alla fine dei giochi. E tuttavia, ciò che distingue un buon autore da uno eccezionale è anche quella cura per i particolari, quell’attenzione verso il proprio lettore che non costringa quest’ultimo a esercitare la propria sospensione dell’incredulità più di quanto non sia necessario.
– Federico Brajda –