Attenzione: parliamo de Il Trono di Spade, e nello specifico di ciò che è accaduto fino alla puntata 7×06. Chi teme gli spoiler è stato avvertito!
Al di là di ogni altro giudizio, Game of Thrones si sta dimostrando sempre più una serie eccezionalmente divisiva per i fan. Trame semplificate o banali, colpi di scena illogici, sensazionalismo di bassa lega, decisioni stilistiche e/o narrative poco eleganti sono i principali argomenti dei detrattori dello show, cui si contrappone una levata di scudi attorno a un programma dagli ascolti record, apprezzato dalla critica e dalla maggioranza degli spettatori, e che nonostante tutto mantiene un livello di qualità superiore alla media.
Tra questi due gruppi si inserisce poi una terza categoria, quella degli apologeti, avari forse di complimenti, ma rapidi a girare ogni critica verso Martin, affermando che le stagioni deboli siano state trasposte da libri non eccezionali in partenza, e dimostrando poca correttezza verso D. Benioff e D. Weiss, assunti per tradurre dei romanzi in serie tv, non per scriverne il finale al posto dell’autore.
Un punto, quest’ultimo, che non può essere negato: lamentatevi quanto volete, ma rispetto a The Winds of Winter la serie possiede l’innegabile pregio di esistere. Del resto, se fosse facile creare un terzo atto e una conclusione soddisfacenti per un’opera intricata, approfondita e amata quale Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, dobbiamo presumere che Martin non ci starebbe impiegando tutti questi anni per farlo.
Occorre poi ricordare il fattore budget: è comprensibile storcere il naso se quel che vediamo su schermo appare meno imponente di quanto ci siamo immaginati, ma ricordiamoci che Martin è diventato principalmente uno scrittore proprio perché incapace di ridimensionare la propria immaginazione nei limiti imposti a uno sceneggiatore televisivo.
Tenendo a mente tutto questo, tuttavia, alcuni dubbi rimangono, e con solo sette episodi a separarci dalla conclusione definitiva della storia, non possiamo evitare di chiederci che ne sarà di anni di aspettative, teorie, e speranze che stiamo vedendo gettati in pasto alla stagione più spettacolare e fracassona di sempre.
Il mondo di Game of Thrones sta affrontando sconvolgimenti epocali a una velocità vertiginosa: non c’è abbastanza materiale per più di tredici episodi, dicono gli sceneggiatori – si deve ricorrere a rapporti sessuali di eunuchi come filler. Eppure, gli eventi su schermo si rincorrono e spesso si accavallano senza lasciare a nessuno (men che meno ai personaggi) il tempo di rifletterci sopra o metabolizzarli.
La vittima principale qui è la durata dei viaggi: ormai si sprecano le battute sul jetpack di Ditocorto e i motori warp della flotta di Euron. C’è chi ridacchia di quei nerd che sprecano la vita a rimuginare sui corvi a reazione, come del resto ha fatto lo stesso Alan Taylor, regista dell’episodio 6, in una dichiarazione a Newsweek.
Lasciando da parte l’argomentazione secondo cui il genere fantasy per propria natura non debba ubbidire ad alcuna forma di logica (neppure quella interna), chiediamoci: perché ci interessa del tempo necessario a viaggiare da oltre la Barriera fino a Roccia del Drago?
Fino a questo momento nella serie e nei libri la distanza geografica e le difficoltà di spostamento e comunicazione sono sempre stati qualcosa di concreto e legato alla trama (una precisa decisione di Martin, aggiungerei). Gli esempi si sprecano, ma cito quello più pertinente: Daenerys non si trovava a nord della Barriera alla fine della puntata 5 precisamente perché era un posto lontano dal suo quartier generale, e il tempo necessario a raggiungerlo l’avrebbe esposta al concreto pericolo di una contromossa di Cersei. In altre parole, lo show ci ha esplicitamente e spudoratamente mentito con lo scopo di creare una situazione di pericolo artefatta e non necessaria (e nondimeno eccezionale dal punto di vista visivo e emotivo).
Solo, noi non ci siamo innamorati de Il Trono di Spade per i draghi, le magie, i duelli e le battaglie: di quelli se ne trova tanto al chilo in ogni altro libro fantasy. Ciò che ha reso unica questa serie è un mondo talmente concreto, dove ogni singola parola ha un peso e un significato preciso, che un’intera community potrebbe rimanere vitale per anni senza contenuti originali solo a partire dalle riflessioni su quello che abbiamo fin ora.
Vedersi rispondere dalla HBO (o dalla direzione della serie) con l’equivalente di un “non ce ne importa, tanto siamo troppo grandi per fallire” è un insulto, puro e semplice, a quella stessa community di appassionati che li ha portati al successo in primo luogo.
Voi che ne pensate?
–Federico Brajda–
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