Ormai qualunque videogiocatore con una punta di passione per i giochi di ruolo conosce perfettamente Geralt di Rivia, lo strigo protagonista della saga ‘The Witcher’ creata dai ragazzi-prodigio di CD Projekt RED, che a maggio prossimo tornerà con ‘Wild Hunt’, l’ultimo capitolo per PC e console next-gen (recentemente, in proposito, abbiamo fatto con voi il punto della situazione). Le origini della saga, però, sono rigorosamente letterarie, e risalgono a molto tempo prima della pubblicazione di ‘The Witcher’ (2007) e ‘The Witcher 2’ (2011): il personaggio – e l’Universo narrativo in cui Geralt si muove – nasce dalla penna di Andrzej Sapkowski, scrittore polacco nato nel 1948, che esordisce nel 1990 e raggiunge un immediato riscontro di pubblico in patria con le sue storie dark fantasy ma, al contempo, crudamente realistiche.
La notorietà internazionale tarda ad arrivare, e lo fa giusto in coincidenza della release dei primi due giochi dedicati allo strigo dai capelli bianchi; per quanto riguarda il Bel Paese, è dal 2010 che Editrice Nord si è presa l’impegno di portare in Italia gli scritti di Sapkowski, al ritmo di uno all’anno. Nel 2010 e nel 2011 sono state pubblicate due raccolte di racconti, rispettivamente ‘Il Guardiano degli Innocenti’ e ‘La Spada del Destino’; dal 2012, con ‘Il Sangue degli Elfi’, la Nord ha avviato la traduzione della saga di romanzi dedicata allo strigo. A febbraio di quest’anno è stato il turno del quarto volume della pentalogia, ‘La Torre della Rondine’, la cui versione originale risale al 1997, ma il cui arrivo nelle librerie italiane risponde alla scaletta alla quale abbiamo accennato poco sopra. Abbiamo letto per voi il quarto romanzo di Andrzej Sapkowski e siamo pronti a farvi sapere cosa ne pensiamo: vi abbiamo incuriosito?
DISCLAIMER: questa recensione non contiene spoiler, se non quelli indispensabili per una breve sinossi della trama e per contestualizzare il discorso. Può contenere – va da sé – riferimenti ai libri precedenti. Chi volesse evitare anche queste lievi anticipazioni può fermarsi qui o salpare con la prima nave per Skellige.
Durante la notte dell’equinozio d’autunno, il mondo intero viene scosso da portenti premonitori che indicano l’arrivo della Caccia Selvaggia, una fantasmagorica orda di spettri e demoni che, come è intuibile, è solita portare sciagure inenarrabili nei luoghi che visita. Pochi giorni dopo, un eremita isolatosi nelle paludi, Vysigota di Corvo, trova il corpo di una fanciulla più morta che viva; la soccorre e si rende conto di avere tra le mani nientemeno che Ciri, principessa e Leoncina di Cintra, bambina-sorpresa il cui destino è indissolubilmente legato a quello di Geralt di Rivia, intento a cercarla dopo gli eventi della Torre dei Gabbiani. Queste, a grandi linee, le premesse da cui muove l’avventura. Per comprendere e seguire al meglio le vicende narrate ne ‘La Torre della Rondine’ è, ovviamente, caldamente consigliata la lettura dei precedenti volumi.
Per prima cosa, leviamoci subito i (pochi) sassolini dalla scarpa, in modo da procedere più leggeri, con le due uniche note negative. La prima è l’assenza di una mappa, ma non possiamo farne una colpa alla casa editrice: anche le versioni originali ne sono sprovviste. Poiché però seguire gli spostamenti dei personaggi e la geopolitica senza avere presente una cartina geografica è impresa assai difficile, consigliamo di scaricare da questa pagina le mappe del mondo in cui sono ambientate le vicende di Geralt e soci (non sono ufficiali, ma rendono l’idea) e di consultarle costantemente durante la lettura. Visto? Problema risolto. La seconda criticità è data dal brusco sopraggiungere del finale, con personaggi – anche di una certa importanza – persi centinaia di pagine prima, del cui destino non è dato sapere alcunché. A tale proposito è però bene ricordare che il romanzo non è autoconclusivo, ma è il penultimo volume di una pentalogia. Che dire? Aspettiamo con ansia il quinto ed ultimo volume! Ora, tolto il dente, possiamo passare a quello che de ‘La Torre della Rondine’ ci è piaciuto.
Il romanzo cattura fin dalle prime pagine e, nonostante la notevole lunghezza dei capitoli, incalza il lettore a correre verso il finale. I personaggi sono vivi e credibili, persi in un mondo violento, triste, senza speranza, diretto verso la propria ineluttabile fine. La violenza emerge con prepotenza dalle pagine: i pugni, i graffi, i lividi, le frustate… sembra quasi di sentire tutto sul proprio corpo, le descrizioni sono vivide e realistiche come istantanee. Questo universo ha ben poco di “fantastico”: ci sono i mostri (ma ne vediamo pochissimi); c’è la magia, sì; c’è la Caccia Selvaggia, anche; ma il mondo che Sapkowski ci fa vedere e toccare è un mondo in cui si muore tra fango ed escrementi, in cui i filosofi non hanno ragione di esistere, in cui le favole sono solo ricordi di un’infanzia perduta.
Lo stile di Sapkowski, poi, è ormai una garanzia: la traduzione di Raffaella Belletti rende in maniera impeccabile il mix di poesia, crudo realismo e profonda ironia che connota tutte le opere dello scrittore polacco. E di ironia se ne trova tanta: pervade sottilmente tutto il libro, dalle risposte sardoniche di Geralt alle sempre divertenti autocelebrazioni di Ranuncolo, passando per i richiami al folklore mitteleuropeo, a quello britannico e a quello scandinavo, i cui archetipi vengono riproposti, modificati e filtrati dall’arguzia del romanziere. È come se Andrzej Sapkowski ci invitasse a scrutare il mondo fantasy che ha costruito e, mentre lo osserviamo assorti, rapiti, estraniati, lo facesse volutamente traballare, rivelando ciò che sta alle spalle di quella illusione: il nostro mondo, la nostra cultura, le nostre idee, i nostri pregiudizi.
Il Geralt che incontriamo in questo romanzo è molto diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere dai videogiochi e dai primi libri dello scrittore polacco: se quello era cinico, ma sempre aperto all’avventura (anche e soprattutto amorosa), prestante e temibile, quello che insegue Ciri ne ‘La Torre della Rondine’ è invecchiato, dolorante, esausto sia moralmente che fisicamente. Qualcosa, in lui, si è spezzato. Nelle poche occasioni che ha per combattere – a onor del vero lo strigo di Rivia e la sua compagnia hanno un ruolo quantomai secondario, in questo romanzo – Geralt appare l’ombra del guerriero che è stato. Mai come in questo libro lo vediamo lento nel rispondere agli attacchi, instabile sulle gambe, costretto quindi a salvarsi per il rotto della cuffia da ogni situazione pericolosa. Lo stesso senso di inutilità affligge la sua compagnia: le schermaglie verbali, le zuffe e le peregrinazioni senza meta ricordano l’ordinaria vita di tantissimi party dei giochi di ruolo, piuttosto che la compagnia di eroi lanciata verso l’epica conclusione della propria missione.
Al contrario, Ciri più che mai è la vera protagonista: un personaggio femminile forte e al tempo stesso delicato, avvenente e al contempo sfregiato, impaurito e contemporaneamente letale. Perduta, ma assai vicina a ritrovare se stessa, Ciri affascina e conquista allo stesso modo con le sue forze e con le sue debolezze. Quanto tempo è passato dalle prime apparizioni della bambina-sorpresa nella vita di Geralt, magistralmente narrate nei racconti? Cirilla è cresciuta, è una striga, ma è anche una adolescente (ha appena sedici anni!) che si sente tradita da tutto e da tutti, ribelle contro l’ordine costituito, contro il fato che da principessa l’ha trasformata in bandita, contro la predestinazione alla quale vorrebbe sottrarsi. Come in passato, i temi della predestinazione e del libero arbitrio tornano incessantemente, cardine dell’intera saga: si può sfuggire al proprio destino? Se si conoscesse in anticipo il futuro, sarebbe lecito desistere dal proprio dovere?
In questo mondo alla fine del mondo, nel mezzo di una guerra che ricorda i deliri espansionistici della Germania nazista, va in scena la storia di uno strigo che non è più uno strigo, che non ammazza più mostri (o che uccide solo mostri “umani”, che di umano hanno ben poco), che non porta più il medaglione del lupo. I punti di vista vorticano di capitolo in capitolo e, con essi, la focalizzazione e gli stili della brillante narrazione di Sapkowski. A questo turbinio, che non è solo prospettico e stilistico, ma anche geografico e antropologico, si affianca e si sovrappone una girandola di balzi temporali, avanti e indietro per tutta la lunghezza del narrato. Coerentemente con il tratto di Sapkowski, ‘La Torre della Rondine’ appare, più che un romanzo corale, un mosaico di racconti le cui tessere, pagina dopo pagina, vanno ad incastrarsi con sapiente perfezione. La giravolta di punti di vista non riguarda solo i personaggi principali, che vediamo sia attraverso i loro stessi occhi che attraverso quelli di altri comprimari; interessa anche vicende secondarie, che beneficiano della stessa attenzione dedicata a quelle più importanti e che contribuiscono a dipingere il ritratto di un mondo variopinto e fantasioso, vivo come non mai sotto gli occhi del lettore.
– Stefano Marras –
La Torre della Rondine – Andrzej Sapkowski: recensione
Isola Illyon
+ C'è Geralt di Rivia, ma...
+ Si corre seriamente il rischio di innamorarsi di Ciri;
+ Un mondo dark fantasy diretto verso la propria Apocalisse, variopinto e vivo, in cui si muovono personaggi indimenticabili;
+ Le descrizioni vivide e realistiche, una narrazione che non sorvola su una violenza sporca e brutale;
+ L'incredibile ironia che pervade l'intero romanzo;
+ Il turbinio di punti di vista diversi e il puzzle di balzi temporali, magistralmente realizzato;
- ... lo strigo appare poco e niente;
- L'assenza di una mappa per orientarsi tra i luoghi citati;
- Il finale eccessivamente brusco e improvviso, quasi "tagliato";