Più o meno da che la gente ha iniziato a creare storie (e a farsi pagare per farlo), innumerevoli generazioni di cantautori, scrittori, e registi si sono confrontate e hanno bestemmiato contro il più grande imperativo della narrativa, ciò che gli anglosassoni definiscono “show, don’t tell”, e che chi non è anglofilo può sentirsi libero di tradurre con “fammi vedere, non raccontarmi”.
Un’ambientazione realistica e coinvolgente, una trama appassionante, dei personaggi a tutto tondo: tutto questo è il meno. Ciò che distingue uno scrittore mediocre da uno eccezionale è la bravura nell’utilizzare tutti questi elementi per emozionare il lettore, e per fargli vivere un’esperienza unica anziché limitarsi a presentargli una serie di dati di fatto: insomma, la capacità di suscitare un’emozione rispetto al dire semplicemente come l’altro dovrebbe sentirsi.
Un discorso simile vale, del resto, quando si parla del mondo del cinema e della televisione. Il medium specifico, in questo caso, presenta dei vantaggi rispetto alla carta stampata. Dopotutto, lo scrittore ha un unico “canale” a disposizione per trasmettere informazioni: la parola. Il regista, invece, può contare sulle immagini e sul sonoro per assicurarsi che in una data scena al pubblico giunga un tono emotivo specifico.
Prendiamo ad esempio Star Wars: nell’Episodio IV Lucas non perde tempo a far spiegare alla principessa Leia chi sia Darth Vader e perché ci sia bisogno di avere paura di lui. Dopotutto, il tizio è una figura imponente, i cui colori sono nero e rosso (tonalità che stimolano rispettivamente emozioni negative e un senso di pericolo), quando entra in una stanza parte una colonna sonora che più inquietante non si può, e una delle prime cose che lo vediamo fare è ammazzare un uomo a mani nude come niente fosse.
Tutti gli elementi (visivo, sonoro, narrativo) concorrono a farci capire che Vader è il cattivo dei cattivi e che quando appare in scena conviene correre a prendere delle mutande di ricambio. Il messaggio arriva chiaro, e soprattutto l’azione non deve essere interrotta per trasmettere in maniera telegrafica qualche informazione: al pubblico il personaggio è mostrato, anziché semplicemente raccontato.
Al tempo stesso, il cinema deve confrontarsi con una grossa limitazione, quella di natura temporale. Se autori come Steven Erikson e Robert Jordan possono permettersi di sfornare migliaia di pagine di trama per essere certi che all’ultimo libro della serie i lettori abbiano capito al di là di ogni ragionevole dubbio quanto la situazione sia grave, il regista medio ha dai novanta ai centoventi minuti per introdurre un cast completo e un’ambientazione, fare nascere, sviluppare e risolvere un conflitto, mostrare una certa evoluzione nei personaggi, inserire abbastanza scene d’azione perché il pubblico non si addormenti, e magari trovare anche una morale a tutta quanta la storia (per aiutare i nerd a darsi un’aria intellettuale quando ne parleranno alle proprie amiche).
Tutto ciò obbliga talvolta a fare delle scelte, sacrificando lo “show” in favore del “tell”: così ad esempio nell’Episodio IV sappiamo che i piani della prima Morte Nera sono stati trafugati nel corso di “una battaglia”, mentre quelli della seconda sono costati la vita di “molte spie Bothan”. Elementi di colore e nulla più, che se pure vengono considerati dal pubblico ottengono come risposta un’alzata di spalle. “Uh, sì, della gente è morta, che novità: la Ribellione è in guerra, in guerra la gente muore. Ora, possiamo vedere un reparto d’élite di Stormtrooper venir massacrato da degli orsetti di peluche, per favore?”.
Purtroppo un ragionamento simile lo si vede abbastanza spesso in un campo differente rispetto all’intrattenimento, cioè quello dell’informazione. La nostra civiltà si ritrova ormai assuefatta al bisogno di sapere tutto di tutti – e subito. Ciò mette spesso a dura prova le capacità dei canali preposti (giornali, radio, telegiornali), che per far arrivare un numero maggiore di notizie devono per forza di cose limitarsi a “raccontarle” anziché “mostrarle”, e rifletterci sopra. Senza il tempo e la voglia di capire veramente cosa stia accadendo, anziché di sentirselo dire e basta, è facile trasformare centinaia di persone fatte a pezzi in un attentato, o un’intera città di bambini che congelano a morte (in una nota a piè di pagina o poco più), in un’alzata di spalle del grande pubblico. Eh, sì, certo che ad Aleppo si sta veramente male in questo periodo, si sa…
Ed è precisamente per questa ragione che un grande plauso andrebbe tributato a Gareth Edwards, l’uomo che ci ha consegnato quel “Rogue One” che tutti (o quasi) abbiamo amato lo scorso Natale.
Egli parte da una noticina, da un paio di parole in giallo che scorrono velocemente su uno sfondo stellato per trasformare quella “battaglia” in un gruppo di persone. Trascina, in un universo popolato esclusivamente da eroi, principesse e maghi spaziali, dei soldati, dei rivoluzionari, dei terroristi, ma soprattutto degli esseri umani. Uomini e donne imperfetti, fallaci, disperati, ritrovatisi da un giorno all’altro parte di qualcosa di immensamente più grande di loro. La squadriglia Rogue Uno, che noi accompagniamo lungo il tortuoso percorso che conduce a una morte straziante, commovente e forse sì, anche un pochino eroica, ci viene mostrata con tutte le sue fragilità e insicurezze, ricordandoci come dietro a un paio di parole, a un conteggio vittime, a una causa e a un ideale, si nascondano sempre degli esseri umani. Molti altri, in Italia come nel mondo, ce lo hanno detto e ce lo stanno ripetendo tutt’oggi. Pochi hanno avuto però la possibilità di rivolgersi a un pubblico tanto vasto, lasciando una traccia su una saga che sarà ricordata come una delle pietre miliari della storia della cultura umana.
Niente da aggiungere, Mr. Edwards: al tuo lavoro, e a quello di tutti coloro che hanno reso possibile “Rogue One”, Isola Illyon non può che applaudire.
–Federico Brajda–