Durante il cordoglio mondiale per la recente quanto prematura dipartita di Carrie Fisher, sono stato colpito da quanto frequentemente il nome proprio e quello del suo personaggio più famoso, la principessa Leia Organa di Star Wars, fossero usati indifferentemente per riferirsi all’attrice californiana. Un segno di quanto l’intera Galassia abbia identificato, anche involontariamente, il personaggio con l’attrice, dando corpo all’ormai famigerata Sindrome di Spock nella quale il personaggio finisce per fagocitare l’immagine e buona parte (se non tutta) della carriera dell’interprete, indipendentemente dalle prove successive – sindrome che per sua stessa ammissione ebbe parte non indifferente nelle problematiche esistenziali della Fisher. Avendo focalizzato in passato, in questo articolo, l’attenzione su lei stessa come parte indissolubile di questo connubio, proviamo adesso a spostarci sul personaggio della Principessa Leia (o, come era conosciuta in Italia prima di Episodio VII, Leila, nome ritenuto meno esotico per il pubblico nostrano alla pari di Ian al posto di Han) e a cercare di capire perché sia assurto a icona del nostro tempo.
Che la Principessa Leia Organa sia universalmente conosciuta è un fatto, così come è un fatto che sia universalmente conosciuta anche da coloro che non fanno assolutamente parte né del fandom di Star Wars in senso stretto, né sono appassionati di fantascienza, segno che l’eburnea alderaaniana è entrata nella cultura pop e nell’immaginario collettivo condiviso da tutti alla stessa maniera di Maradona, dei Beatles e di Ulisse. Parte di questo processo è sicuramente da attribuirsi al puro fatto di essere parte integrante di quella che è diventata – volenti o nolenti, non me ne voglia nessuno – l’Epica dell’era contemporanea, così come Iliade e Odissea lo sono state dell’età classica. Tant’è vero che questo è un destino che la principessa condivide con molte altre figure di Guerre Stellari, come Darth Vader (l’icona più icona di tutte), Han Solo, i droidi, Chewbacca e Luke stesso. Sarebbe però riduttivo credere che questa enorme fama derivi esclusivamente dall’essere un archetipo nella favola più famosa degli ultimi quarant’anni: a parte il fatto di essere una Principessa e di essere in pericolo all’inizio della saga, tutto il resto infrange clamorosamente il cliché della fanciulla-soprammobile che sta lì per essere salvata e far fare bella figura all’eroe di turno.
In realtà il personaggio di Leia Organa è così famoso perché è una miracolosa sinergia di concezione geniale, ottima scrittura e capacità interpretativa di Carrie Fisher. Di Sua Altezza si è innamorato indifferentemente il pubblico sia maschile che femminile e, se può sembrare automatico per i maschietti (siamo seri, chi non si innamorerebbe di una donna così? Bellissima di una bellezza non banale, coraggiosa, altruista, ribelle, indipendente, ironica e pure affettuosa, alla fine), è indicativo invece il successo ottenuto presso le femminucce, le quali, al di là del potersi finalmente specchiare in una donna forte, sentivano di potersi identificare in un personaggio femminile a volte anche fragile, dubbioso, insicuro e ispido, del quale però non venivano mai messe in dubbio le capacità di leadership e il valore per il solo fatto di essere donna. In una parola: umana. Una donna vera (come raramente troviamo nelle narrazioni non fantastiche) in un racconto fantastico. E ritorniamo alla subcreazione tolkieniana, alla verità dietro la fantasia.
Si comprende quindi perché Maria Luisa di Norvegia chiami Leah la figlia, perché la protagonista de “Il gatto dagli occhi d’oro” della De Mari si chiami Leila, perché la Principessa Organa venga continuamente omaggiata (come nella canzone “A new hope” dei Blink 182), e perché tante donne ancora oggi ammettano un debito di riconoscenza nei suoi confronti come loro primo modello femminile moderno.
In realtà, la sorella gemella di Luke ha avuto il successo che ha avuto perché è un personaggio a tre, quattro e anche cinque dimensioni (compresa quella iperspaziale) rispetto alle eroine dei nuovi film che dovrebbero sostituirla, a mio parere piuttosto piatte e monodimensionali. Al di là del valore guerriero (Leia è una tiratrice micidiale: è quella che colpisce più nemici in rapporto ai colpi sparati, anche più del fratello e di Han) e del fatto che spesso risolve situazioni con buonsenso tipicamente femminile (vedi il salvataggio nello scarico dei rifiuti della Morte Nera), è lei che, nonostante dubbi, ripensamenti, timore del fallimento e paura di sentirsi inadeguata per il compito che l’attende, tiene dritta la barra in tutta la trilogia originale – insieme ad un’altra donna, Mon Mothma. È lei che ha ben presente l’obiettivo finale, che ha chiaro il motivo per il quale si combatte e lo ricorda sempre indicando la strada a tutti, compresi Luke e Han, quando all’inizio uno non è che un ingenuo contadinotto catapultato in eventi più grandi di lui e l’altro un opportunista che non ha ancora capito se far prevalere l’istinto di sopravvivenza o il suo cuore d’oro. Nonostante la giovane età, li guida, li consiglia e li stimola, con tanto di occasionale cazziatone quando serve, stretta sempre tra l’affetto personale per loro e tutto quello che comporta essersi messi al servizio di una causa superiore. Tutto per il raggiungimento della libertà, cioè del bene comune. Che, poi, è quello per cui di solito si impegnano le donne.
–Luca Tersigni–