Attenzione: questo articolo contiene SPOILER su Rogue One. D’altro canto sono passate anche due settimane dall’uscita del film: se non l’avete ancora visto siete voi quelli nel torto!
Di norma intorno a Star Wars orbitano polemiche che farebbero cascare braccia, gambe e genitali a chiunque abbia superato il gradino evolutivo dell’australopiteco.
Ciò considerato, c’è da accogliere con gioia e urla da stadio la polemica che ha accompagnato l’uscita di Rogue One, nel quale assistiamo all’inattesa resurrezione in CGI di Tarkin, il cattivone di A New Hope, interpretato in origine da un Peter Cushing che è passato a miglior vita nel 1994.
Al netto dei mignolini alzati dai critici stronzetti, l’impatto visivo è sensazionale. La tecnica usata dalla Industrial Light & Magic, la nota divisione della Lucasfilm deputata agli effetti speciali, è avvolta nel mistero. Di sicuro è nuova, e di sicuro è costata sangue e sudore. In termini spiccioli, comunque, hanno fatto una gollumata: hanno preso un attore simile a Tarkin (Guy Henry, che povero lui manco riceve i credits nei titoli di coda) e gli hanno detto “balla, bertuccia, balla, i sensori appiccicati alla tua faccia e al tuo corpo faranno il resto”.
Capiamoci: si nota che è una ricostruzione fatta al computer. Ciò nonostante, anche se la tecnica è sperimentale, resta sempre meglio della patina di vaselina digitale applicata sulla faccia di Orlando Bloom-Legolas ne Lo Hobbit. Beh, in effetti qualunque cosa è meglio della faccia di Orlando Bloom-Legolas nel Lo Hobbit. Certo è comunque che l’imperfezione spezza la sospensione di incredulità e rischia di calciorotare lo spettatore fuori dallo spazio della narrazione. Il che sembra succedere soprattutto agli spettatori che conoscono la saga, e che nella vita rompono il cazzo di professione (i neofiti, pare, nemmeno se ne sarebbero accorti).
In maniera non dissimile è stata ringiovanita Carrie Fisher. La tecnica è simile: un’altra attrice (Ingvild Deila), sensori e tanto sbattimento in post-produzione.
Le polemiche investono essenzialmente tre profili: uno etico, uno tecnico e uno che potremmo chiamare di “opportunità”. Sul secondo mi sono già espresso – sono certo che anche i primi film a colori non fossero tutta questa bellezza. Sugli altri due c’è un bel po’ di che discutere.
Perché diciamocelo: gli eredi di Peter Cushing, proprietari dei diritti di immagine, avranno pure dato il consenso e firmato un accordo con la Lucasfilm; ma etica e legalità sono due sfere distinte (a meno che non viviate in Arabia Saudita), e resta il fatto che Peter Cushing non sia stato interpellato.
Il sentore è quello di aver aperto un Vaso di Pandora: la manina Hollywoodiana, freneticamente intenta a rimestolare sul fondo del “già-visto-ma-funziona”, si ritrova fra le mani un aggeggio sensazionale con il quale declinare il suo feticismo vintage non solo nei contenuti, ma anche nei protagonisti. Un’armata-zombie capitanata da Marlon Brando nudo che scoreggia insieme a Robert De Niro, Marilyn Monroe che squatta sul pene di Daniel Craig e Charlie Chaplin in vacanza con De Sica sul Rio delle Amazzoni (con l’inevitabile cammeo di Stanlio-Kurtz).
Il pericolo è già stato intravisto: da Bo Jack Horseman a The Congress, l’intrattenimento avverte se stesso dei rischi che corre; che forse sono più che altro rischi per gli attori, potenzialmente defraudabili della propria identità artistica, da riprodursi (poiché riproducibile) in bit e così ridursi a mero oggetto di proprietà intellettuale, a disposizione dello Studio cinematografico del caso. “Your scientists were so preoccupied with whether or not they could, they didn’t stop to think if they should”.
C’è da dire, però, che la resurrezione dei morti non è un fenomeno nuovo al mondo del cinema (o della televisione). Abbiamo visto Marilyn Monroe fare pubblicità alla Snickers. Per non parlare dei tanti, troppi attori deceduti durante le riprese di un film (da Brandon Lee a Paul Walker, da Seymour Hoffman a Heath Ledger).
Il caso del morto “in corso d’opera” sembrerebbe, a prima vista, un po’ differente. È intervenuto in momenti storici diversi, e ha visto risposte diverse. Nonostante gli scarsi mezzi tecnologici, ne Il Corvo sono stati usati effetti speciali e controfigure. In Parnassus e Hunger Games: Il canto della rivolta (Heath Ledger e Seymour Hoffman), ben più recenti, sono state riscritte le sceneggiature. Dove con più facilità, dove con meno.
E qui arriviamo al profilo dell’opportunità. Era possibile scrivere Rogue One in modo diverso? Piazzare Tarkin in un ologramma, e tanti saluti? Tutto considerato, la magnitudine con cui si presenta sullo schermo risulta quasi ingombrante; e il povero Direttore Krennic deve fare a pugni (diegeticamente e non) per ottenere lo spazio che merita. Nell’economia della storia, forse si sarebbe potuto fare di meglio.
Forse la spinta necrofila Hollywoodiana, al netto di tante chiacchiere, è solo l’ennesimo modo per capitalizzare la nostalgia dell’Età dell’Oro (ontologicamente individuata nei tempi che non ritorneranno). Forse la lezione di Parnassus dimostra che si può osare di più (magari anche sbagliando): mettere mano alla penna, e aggirare gli sgambetti della Nera Signora con la magia di una buona storia.
O forse questo è un giudizio impietoso, e anche un po’ rompicoglioni. Forse, come dimostra la Marilyn delle Snickers, arriva un momento nel quale la distanza storica fra pubblico e Attore si dissocia da quella fra pubblico e Personaggio. Ed è in quello snodo cruciale, in quella fatidica dissociazione, che un colpo di spugna digitale può consacrare il Personaggio all’altare del Tempo: immortale nella memoria, resuscitato sullo schermo.
Peter Cushing non è stato interpellato. Peter Cushing chi? Quello è Grand Moff Tarkin.
P.S.: chissà, ora che la Fisher è venuta a mancare, quale trattamento riserveranno al Generale Organa nei futuri lungometraggi della saga…
–Luca Pappalardo–