Attenzione: assumiamo che tutti quelli cui interessi qualcosa di Star Wars in generale e dell’articolo seguente in particolare abbiano già visto “Rogue One”. In caso contrario, beh, forse gli spoiler che leggere ve li siete meritati.
Lo abbiamo detto in diverse occasioni e non ci stancheremo mai di ripeterlo: dalla principessa Leia di Carrie Fisher in poi, il franchise di Star Wars non si è mai fatto particolari problemi con le protagoniste di sesso femminile. Dopo l’avvento dell’era Disney tale tratto pare essersi radicalizzato, tanto che in molti hanno mosso diverse critiche alla Rey dell’Episodio VII (come se quel film non avesse abbastanza motivi per cui lamentarsi…), definendola, a torto o a ragione, una Mary Sue spacca-trama buttata in mezzo al film in un goffo e semplicistico tentativo di empowerment del genere femminile.
Ora finalmente possiamo ritornare sulla questione con un po’ di dati in più a nostra disposizione: come chiunque non sia stato rispedito all’età della pietra da qualche strambo varco spaziotemporale avrà notato, nelle scorse settimane è approdato ai cinema “Rogue One”, noto anche come “lo Star Wars senza la scritta gialla all’inizio”, di Gareth Edwards. Dei motivi che distanziano e distinguono la pellicola dal resto del franchise se ne potrebbe parlare per ore: oggi però scegliamo di concentrarci un momento sulla seconda eroina introdotta in due anni in una certa Galassia lontana lontana. Il suo nome è Jyn Erso, alias Stellina, interpretata da una non particolarmente espressiva, ma comunque adeguatamente carismatica Felicity Jones.
Due personaggi, Jyn e Rey, entrambi destinati (evidentemente) a giocare dei ruoli fondamentali nell’epica e multi-generazionale saga di Guerre Stellari: fondamentali, ma tutt’altro che simili. La più evidente differenza che salta all’occhio tra le due è infatti l’enorme dissomiglianza negli eventi che le coinvolgono e che vengono mostrati su schermo. Quello di Rey è il viaggio iniziatico dell’Eroe, che da un anonimato iniziale si avventura per il più vasto mondo (o universo, in questo caso), maturando sia a livello di capacità che di motivazioni personali (il superamento del desiderio di ritornare a casa, su Jakku, in attesa della propria famiglia): un modello narratologico archetipale i cui paralleli con quello di Luke (ma anche di Anakin) Skywalker sono evidenti quanto intenzionali.
La storia è radicalmente diversa per quanto riguarda Jyn: il suo viaggio iniziatico lo ha già compiuto, e in maniera anche piuttosto traumatica. Per lei “Rogue One” non è certo un’occasione di maturare come persona, quanto piuttosto un percorso inverso: un ritorno all’origine, alla ricerca di un padre appena conosciuto, e del senso di una vita intera. Forse anche per questo viene data un’attenzione decisamente minore alle sue capacità: certo, la vediamo prendere a mazzate un team di ribelli e far fuori un paio di assaltatori, ma si tratta un po’ del minimo sindacale di questi tempi. Il suo ruolo, nel film, è decisamente più discreto, più sottile.
Jyn è l’anima del gruppo di reietti e disadattati che va a costituire il team Rogue One, la personificazione del tema dell’espiazione e del perdono che attraversa il film: grazie a lei, al messaggio che porta, alla missione cui dà il via, Andor può trovare un senso alle atrocità commesse, Bodhi la propria dignità e il rispetto di sé, Baze la fede perduta. In un certo senso, l’intera Ribellione (che qui vediamo con parecchi scheletri nell’armadio) è redenta dal sacrificio di quanti cadono su Skariff. “Speranza” è la parola che chiude la pellicola: la speranza sì di trionfare sull’Impero, ma anche di aver combattuto in nome di qualcosa di giusto, di sensato.
Al confronto Rey incarna in maniera decisamente più convenzionale l’idea di eroina. La sua Galassia è più semplice, dai confini più netti: la Resistenza non necessita certo di qualcuno che le riconsegni il vantaggio della moralità nella lotta al Primo Ordine, come del resto il film non ha bisogno di una intera squadra di protagonisti per dirimere il conflitto in questione. Al massimo, occorrono un mentore (Han Solo) da eliminare per un po’ di motivazione in più, e di un comprimario incompetente (Finn) per far risaltare di più quanto perfettamente eccezionale la nostra protagonista sia.
Due eroine molto diverse, dunque, come diversi del resto sono tono e finalità della narrazione. Abrams con “Il Risveglio della Forza” è costretto a raccogliere abbastanza consenso da sostenere un’intera, nuova trilogia, accontentando fan vecchi e nuovi e al tempo stesso consegnando un prodotto sufficientemente “family friendly”: ci si muove sul sicuro, con un personaggio principale tradizionale, incarnazione sia di competenza estrema nei campi più disparati che di tutte le virtù positive, e in grado di portarsi a casa una vittoria conclusiva (se non definitiva, quantomeno netta).
Edwards, pur con tutte le preoccupazioni del caso (circola voce di un finale alternativo, con Jyn e Cassian destinati a vivere per sempre felici e contenti su un pianeta sperduto), ha decisamente mano libera per sbizzarrirsi con temi e toni decisamente più adulti, creando una protagonista che non sfigura di certo accanto a tutta una serie di personalità che vanno dall’anti-eroico (Cassian) fino all’apertamente antagonistico e amorale (Saw).
Entrambi i casi rappresentano dunque una visione precisa e pensata di personaggi femminili forti e adattati al contesto in cui sono cresciuti, in cui si trovano a vivere e ad agire. Un contesto che per molti versi risulta ben più clemente con Rey di quanto non sia stato con Jyn (ricordiamo, bambina-soldato batte bambina abbandonata di diverse lunghezze nella classifica delle sfighe di vita): da qui la differenza di stili, nonché di preferenze da parte dei fan che però, in ogni caso, hanno veramente poco di cui lamentarsi.
–Federico Brajda–