“Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova”. Deve esser stato questo il mantra che si sono ripetuti per otto lunghi anni gli sviluppatori all’interno degli uffici di DICE.
Era il 2008 quando venne pubblicato Mirror’s Edge, un gioco difficilmente classificabile e altamente innovativo. I termini “avventura dinamica” e “azione” non rendevano giustizia a questo titolo frenetico, basato principalmente su percorsi da parkour da affrontare in prima persona, il tutto in una cornice distopica in stile Grande Fratello, nei panni di una moderna runner donchisciottesca in lotta contro il sistema. Sull’altro piatto della bilancia, però, i problemi non mancavano: al di là del tallone d’Achille solo italiano riguardante il doppiaggio, pesanti critiche furono ricevute per l’eccessiva linearità del gioco, che non lasciava molta libertà d’azione al di fuori di una trama tra l’altro breve e leggermente scontata.
Dopo aver rimuginato su questi aspetti, gli sviluppatori hanno finalmente deciso di riprovarci. Non con un sequel, bensì con un reboot che, partendo dagli aspetti positivi del precedente, cancellasse gli errori del passato. Ecco, quindi, spiegata la nascita di Mirror’s Edge Catalyst, uscito da poche settimane su tutte le piattaforme. L’ho provato per voi, come potete vedere dal video-gameplay qua sotto, e vi parlo delle mie impressioni.
Il primo impatto è stato decisamente positivo. Viene subito messo in chiaro quale sia il punto centrale di tutto il gioco, ovvero parkour fino a farsi venire il mal di testa. Tramite un semplice tutorial, si prende dimestichezza con i comandi e con l’ambiente circostante, fatto di salti e ostacoli: la sensazione, in ogni caso, è che gli sviluppatori abbiano centrato l’obiettivo di rendere il gameplay meno macchinoso. Terminata questa missione a prova di idiota, ecco che si viene catapultati sul tetto di un grattacielo, pensando “minkia ke figata” (sì, perché ognuno di noi nasconde un lato tamarro!). Le cose che colpiscono maggiormente sono due: la resa grafica della città di Glass e la libertà di azione. La prima può sembrare banale e scontata trattandosi di un gioco del 2016, ma vi assicuro che un unico ambiente (perché sempre di edifici si tratta) così variegato si è visto poche volte in un semi-open world. Oltretutto, una certa cura nei dettagli rende sicuramente l’esperienza più gradevole e fluida, soprattutto durante gli spostamenti. La seconda, invece, è una piacevolissima sorpresa, che aggiunge alla trama principale ore di gioco aggiuntive e una varietà a livello di gameplay. Se in Mirror’s Edge, infatti, si era praticamente costretti a spostarsi solo da un punto A ad un punto B (e stop), in questo capitolo abbiamo la possibilità di prenderci pause dalle missioni principali per svolgere quest secondarie, o anche solo vagare senza apparente motivo.
Stavo già correndo a incensare DICE con belle parole, quando ecco che si manifestano i primi spettri, e quindi mi tocca passare alle note dolenti. Sì, perché pare che gli sviluppatori abbiano commesso qualche errore nel fare i compiti a casa.
Partiamo dalla storia. Rispetto al titolo del 2008 sono stati modificati alcuni elementi, tuttavia la trama rimane pressoché la stessa: la Kruger Holding è un’azienda che controlla ogni cosa all’interno di Glass; a opporsi a questo regime totalitario ci sono i runner, specializzati in attività che sfuggono al controllo della stessa, e per questo considerati nemici. In questo contesto si inserisce Faith, la nostra giovane protagonista, con una storia personale che si intreccia prevedibilmente con quella delle due forze in gioco. Al di là dei numerosi cliché, il racconto degli eventi è affidato principalmente a sequenze in Computer Grafica e lunghe conversazioni via radio, con l’unico risultato di avere scene che sembrino messe lì soltanto per far fare una pausa al giocatore tra una missione e l’altra, senza contare i fastidiosi dialoghi di sottofondo a cui è anche difficile prestare attenzione, considerato che si è leggermente impegnati a saltare da un grattacielo all’altro.
L’altro evidente problema di Catalyst riguarda i combattimenti, anch’essi introdotti tramite un tutorial. Sembra tutto facile, con un tasto adibito all’attacco e uno alla schivata, oltre alla possibilità di eseguire attacchi in corsa che infliggono un danno maggiore agli avversari. Peccato che nella pratica il tutto si traduca in scontri ai limiti del ridicolo. Quando la difficoltà comincia a salire, ecco che ci si ritrova ad affrontare nemici che schivano e parano, in grado di stendere la povera Faith in due secondi. Così più che calci e pugni in stile Fight Club, sembra quasi di giocare al gatto e al topo – a meno che, dopo 8 chilometri di corsa, non si sia calcolato il tempo esatto per ficcare un calcio sulle gengive al primo nemico che ci si ritrova davanti, ovviamente.
In generale il gioco rimane una novità nel panorama videoludico d’avventura, ma la sensazione finale è che, rispetto al passato, lo step in avanti sia stato ancora troppo corto.
E voi, l’avete provato? Cosa ne pensate?
– Andrea Camelin –
Mirror’s Edge Catalyst: recensione e gameplay
Andrea Camelin
- Buona varietà di missioni e gameplay legate all’esplorazione dell’open world;
- La resa grafica della città è di grande impatto;
- Il gameplay è meno macchinoso rispetto al passato;
- Il sistema di combattimento lascia ancora un po' a desiderare;
- La trama è leggermente sconnessa, e raccontata in modo poco efficace;