In questi giorni sono stato invitato a presenziare all’anteprima di It Follows, lungometraggio indipendente grandemente voluto nel 2014 dal regista David Robert Mitchell. Con il budget risibile – almeno per gli standard americani – di 20.6 milioni di dollari, un cast di illustri sconosciuti e un direttore/autore privo di gavetta, poco sorprende che la pellicola ci abbia messo il suo tempo ad arrivare sulle coste italiane (la troverete al cinema dal prossimo 6 luglio). Ma ne sarà valsa la pena?
Jay, bionda studentessa del Michigan, passa l’estate a flirtare con il belloccio Hugh. Uscite al cinema, serate alcoliche in riva al fiume e, infine, la coronazione del rapporto con sesso passionale in una scenografica auto d’epoca; tutto rientra nella normalità collegiale, almeno fino a quando il ragazzo non la narcotizza a tradimento per lasciarla legata a una sedia a rotelle nel centro di un palazzo abbandonato. Hugh, visibilmente agitato, spiega caoticamente di averle scaricato con l’atto sessuale la persecuzione di un’inarrestabile entità il cui aspetto umanoide si modifica costantemente, un essere ultraterreno percepibile solamente ai soggetti maledetti e mosso da intenti omicidi. Le parole proferite sembrano concretizzarsi con il lento sopraggiungere di una donna completamente nuda, i suoi passi sicuri, la sua traiettoria retta verso la protagonista, senza mai staccarle gli occhi di dosso.
Jay, trascinata da Hugh a casa prima che l’essere riesca a toccarla, si trova quindi a dover improvvisamente vivere un incubo fatto di paranoie, fobie e visioni, finendo col prendere gradualmente la consapevolezza del non potersi mai dire al sicuro. Tra dubbi e fiducia, gli amici fanno del loro meglio per combattere la creatura, ma l’unica soluzione parrebbe essere quella di delegare la maledizione ad altri via atto sessuale, e pregare che questi riescano a rimanere in vita in modo da soddisfare l’incomprensibile obiettivo del mostro.
Per molti versi It Follows potrebbe essere reclamizzato come un “The Ring” nel quale le sveltine sostituiscono i vetusti nastri VHS, ma la cosa non renderebbe del tutto giustizia a questo lavoro che, pur con le sue imperfezioni, ricava molto dai sentimenti che il regista ha riversato nel girato. Frutto e catarsi degli incubi d’infanzia di Mitchell, infatti, con questa pellicola l’autore analizza e trasporta su cellulosa i suoi più grandi terrori, mescolandoli a tecniche cinematografiche rubate ai più grandi autori dell’horror e non solo. È palpabile il desiderio di voler mimare le cupe atmosfere di cui solo David Lynch è padrone, ma si notano facilmente anche i rimandi a Kubrick o i frequenti ammiccamenti nei confronti di Cronenberg.
In effetti, a discapito di un pretesto narrativo abbastanza debole, sono proprio i movimenti di camera a impreziosire l’esperienza cinematografica con un’atmosfera asfissiante e densa; i campi ariosi e le lente carrellate ben si sposano con il ritmo pacato e angosciante, mimando quasi inconsapevolmente i costanti e minacciosi passi della creatura. Le frequenti cadute di stile e l’evidente tentativo nell’emulare i grandi del settore rivelano inclementemente come si abbia a che fare con un regista in erba, ma il suo essere relegato alle produzioni indipendenti gioca a favore di tutti, liberandolo dai dogmi hollywoodiani contemporanei e permettendogli di riscoprire una cadenza narrativa che pareva dimenticata da “Terrore dallo spazio profondo”.
Per quanto riguarda il sonoro, è facile intuire sin dai primi momenti di proiezione come esso vada a ricoprire un ruolo di grande importanza, se non altro perché il cinema aveva impostato un volume tale da fare sanguinare ogni orifizio corporeo a seguito di vaste emorragie interne. Questo tratto, affiancato alla tesa atmosfera, rende quantomai intollerabili i “jumpscare” di rito, ma finisce anche con l’imporre l’insolita e “arcaica” colonna sonora composta dai toni ambient-electro di un certo Disasterpeace (meglio conosciuto come il compositore del videogioco Fez). Se il genere musicale si sposa bene coi film futuristici dei primi anni ’80, e ancor meglio con un album musicale dei Daft Punk, qui risulta quasi una distrazione, una discrepanza anacronistica.
“Anacronismo” è un termine caro a Mitchell: durante tutto il lasso della proiezione non ho potuto che chiedermi come mai i protagonisti fossero circondati da strumenti elettronici ormai caduti in disuso. Ad eccezione di un ebook reader dal look anni ’60, i giovani in questione hanno a che fare con film in bianco e nero, grossi schermi catodici, automobili vintage, macchine da scrivere, e telefoni fissi; col senno di poi – e spulciandomi le interviste del regista – ho realizzato come l’intento fosse quello di ricreare una situazione atemporale, priva di punti di riferimento: peccato che le scelte immature ed entusiastiche del nostro David Robert abbiano fatto naufragare questa forma di astrazione onirica, catapultando lo spettatore in un mondo semplicemente incongruente.
Ultimo e più importante fattore di cui i più parleranno: il sesso. La sessualità è trattata ambiguamente nel film, delegando al singolo individuo la connotazione da attribuirgli; l’interpretazione immediata è quella perbenistica secondo la quale bisognerebbe criticare aspramente i rapporti sessuali casuali tra i giovani, ma altri vedono il tutto come un riflesso cruento delle malattie veneree, HIV tra tutte. Dal canto suo, Mitchell sembra rinnegare queste visioni, puntando piuttosto sul collegamento emotivo che va a saldarsi tra persone che hanno rapporti e, a onor del vero, potrebbe intenderlo senza ombra di ipocrisia, visto che Jay finisce con lo sviluppare effettive emozioni (tenerezza, sensi di colpa, amore) nei confronti di coloro con cui giace.
– Walter Ferri –
It Follows: la recensione
Isola Illyon
- Atmosfere intense;
- Regista degno di attenzione;
- Ansia, ansia, ANSIA!!!
- Colonna sonora troppo ingombrante;
- Pretesto (sessuale) debole;
- Soluzione finale prevedibile;