Sono passati 22 anni da quando Warcraft: Orcs and Humans debuttò sul mercato, cambiando per sempre il mondo dei videogiochi. Anche se non si può definire il primo RTS (Real-Time Strategy) della storia – il primato dovrebbe appartenere a Dune II – è senz’altro un esponente fondamentale del suo genere.
Avevo appena 6 anni o poco più quando arrivò sul mio PC, e posso dire di essere cresciuto insieme alla Blizzard, avendo giocato praticamente ogni titolo firmato dall’azienda americana, tutti prodotti che hanno avuto una grande influenza nel settore (basti pensare a MOBA come League of Legends, Smite, DotA ecc., che oggi vanno tanto di moda e che nascono proprio come evoluzioni online degli RTS Blizzard).
Ventidue anni e non sentirli, potrebbe dire la software house, visto che dopo tanto tempo ha deciso di tornare alle origini producendo un film sulla trama del suo vecchio “Orcs & Humans”.
La pellicola, così come i giochi, può piacere o meno, ma di sicuro c’è da chiedersi come mai una serie vecchia di vent’anni continui ancora a essere così prolifica, così seguita, così odiata e amata.
Guardando il “curriculum” della Blizzard ci si stupisce subito di una cosa: la esigua quantità di titoli, che con il passare degli anni sembrano addirittura essere pubblicati con sempre minore frequenza. E questo, senza intaccare minimamente il fatturato della società, che con i suo 4700 dipendenti sembra passarsela ancora bene.
Tre sono i capisaldi della casa californiana: Warcraft, Starcraft e Diablo (Overwatch, nonostante la buona accoglienza, è ancora un’incognita). Tre titoloni di grande successo, tre serie portate avanti a distanza di molti anni e anche con modalità molto diverse: RTS, MMORPG, ma anche giochi di carte, romanzi e film. Sembra quindi che la strategia non sia lineare (pubblicare nuovi videogame costantemente), ma trasversale, sviluppata in modo da influenzare ogni sfera dell’intrattenimento. In altre parole, l’universo Warcraft (e Starcraft) esce dallo schermo, si rinnova, e in fondo ci attira sempre. Blizzard ha creato dei brand, capaci di vendere anche se appiccicati ad un pacchetto di fazzoletti, brand portati avanti con grande coerenza per molti anni, tanto da aver creato fiducia, quasi familiarità (chi non vorrebbe invitare Arthas a cena per Natale?).
Cos’è che ci piace tanto di Warcraft e del suo cugino fantascientifico? Prima di tutto il look. Quell’aspetto fumettoso, surreale, chiaramente esagerato, nel primo capitolo della saga poteva essere giustificato dall’epoca in cui è uscito e dalle capacità tecniche dei PC del tempo. Invece di modificarlo, Blizzard ha deciso di tenerselo stretto in tutti gli episodi successivi della serie. Non a caso una delle cose che mi ha stupito di più del film è proprio questa: il voler essere fedeli in tutto, assolutamente in ogni dettaglio (dal piumaggio dei Grifoni al colore dei tetti nelle case del Lordaeron), nel modo di rappresentare l’ambientazione. Sì, anche quando quelle armature e quelle spade erano essenzialmente troppo grandi, troppo pacchiane per essere credibili sul grande schermo: ma l’azienda ha voluto essere coerente, cosa che i fan avranno sicuramente apprezzato.
Altro punto fondamentale è sempre stato il lato ironico del franchise. Nonostante il grande pathos delle trame, la gag c’era sempre: saltava fuori quando si cliccava più volte sulle unità, o ad esempio nei fantasiosi (e interattivi) tavoli da gioco di Hearthstone. Insomma, una caratteristica abbastanza innovativa specie nel genere fantasy, sempre a rischio di prendersi troppo sul serio.
Terzo punto, la possibilità di saltare oltre la barriera. Ti annoiano i cavalieri umani? Puoi giocare gli orchi. Gli Zerg ti fanno venire il voltastomaco? Eccoti i Protoss. Orda o Alleanza? A te la scelta. Anche questo, purtroppo, è un aspetto che ha influito in “Warcraft: L’inizio” – poi vi spiegherò perché.
Ecco quindi che abbiamo tre elementi alchemici con i quali lo stregone di turno può creare un marchio, ovvero un’entità intangibile (probabilmente proveniente da un altro pianeta) capace di farci pagare il doppio un paio di mutande perché sopra c’è il volto cornuto di Durotan (i doppi sensi sono puramente casuali). Nel caso di Blizzard, poi, questo stregone/alchimista (multiclasse) è parecchio esperto, perché è riuscito a trasportare sempre tutti e tre gli aspetti in ogni suo prodotto – eccetto forse le mutande di Durotan.
Se pensate che sia qui per fare spudorata pubblicità alla Blizzard però, vi sbagliate, perché questi stessi punti di forza rappresentano anche delle debolezze. Esempi?
Possiamo citare il gioco di ruolo cartaceo, che non è mai partito davvero, perché nel pen-and-paper il look non attira più di tanto, e la possibilità di giocare ogni ruolo possibile è già compresa all’interno dell’espressione “gioco di ruolo”. Anche il gioco di carte collezionabili sembra ormai di fronte al suo tramonto, con un inaspettato successo invece di Hearthstone – forse perché qui, giocando con citazioni, musiche e suggestioni varie, ritorna quell’atmosfera ironica tipica della serie.
E da ultimo, il film “Warcraft: L’inizio“, che ha deluso tanti fan, proprio perché ha voluto accontentarli troppo. Ci ha dato esattamente il look dei giochi, la trama dei giochi, le occasionali gag, e non ha mai preso le parti né dell’Orda né dell’Alleanza, piazzando sullo schermo troppi personaggi, ma nessun protagonista. Non si può dire che sia brutto, ma neanche all’altezza dell’evento cinematografico che la gente aspettava da 22 anni.
Sapete cosa ho fatto, dopo aver visto il film? Per la tristezza ho scaricato Hearthstone. Perché non importa quanto siamo forti e valorosi, cadremo sempre vittime del branding.
– Daniele Gabrielli –