La distopia sociale sta alla fantascienza come l’Università allo studio. La descrizione di una società futuristica distorta, brandita come allegoria per raccontare le derive negative del presente, è l’apice di un percorso di un autore o di un regista, l’opera suprema, che se ben calibrata può proiettare l’ideatore nell’empireo dell’arte e addirittura segnare un nuovo immaginario: ma imbroccare l’equilibrio è difficilissimo. Insomma, la materia scotta maledettamente e, se non ci si chiama Orwell, Bradbury o Vonnegut (o, per restare nell’ambito cinematografico, Truffaut o Ridley Scott), può capitare che non solo non si riesca a firmare un film o un libro memorabili, ma si scada nel noioso, nel didascalico o, ancora peggio, nell’involontariamente comico.
Ecco perché mi sono accostato a questo The Lobster (non fatevi ingannare dal titolo inglese e dal cast internazionale, questo film è europeissimo, anzi greco, l’attuale frontiera fisica e metaforica del nostro continente, benché girato tra i paesaggi mozzafiato della verde Irlanda) con un pizzico di sano scetticismo: il regista Yorgos Lanthimos non ha ancora, con tutto il rispetto, un cursus honorum che possa far dormire sonni tranquillissimi, specie davanti ad una pellicola di questa portata. Ma d’altronde il pericolo è il mestiere di Isola Illyon, e per amore dei nostri lettori noi siamo sempre pronti a tripli carpiati con avvitamento nel buio delle sale cinematografiche di tutta Italia.
SINOSSI
In un futuro molto prossimo (a tecnologia praticamente identica alla nostra) benché immaginario, alle persone oltre una certa età non è consentito essere single. Chiunque rimanga solo, solitamente per la morte del partner, viene arrestato e deportato in una struttura chiamata “l’hotel”, nel quale si è condannati a trovare l’anima gemella entro 45 giorni, decorsi i quali si subisce la trasformazione in un animale a scelta del malcapitato. È esattamente quello che succede a David, architetto di mezza età (un Colin Farrell imbolsito a dovere per l’occasione) che, lasciato dalla moglie, si ritrova a subire questo trattamento nella struttura rieducativa, con la prospettiva di diventare un’aragosta (in inglese “Lobster”, appunto) alla fine di tutto. Tra ricerche di affiatamento con improbabili partner, personaggi grotteschi e stralunati, rituali stranianti e l’immancabile ribellione nei boschi, il futuro appare quantomai a tinte fosche…
M’AMA O NON M’AMA?
Raccontata attraverso la struttura di un tipico film di fantascienza distopico (quindi da una parte lo stato e la società tirannica che entra a gamba tesissima in una delle dinamiche per definizione più privata dei cittadini, quella sentimentale, e dall’altra la Resistenza a questa invasione di campo con regole, vedrete, altrettanto assurde), l’allegoria che sta alla base dell’intero film è abbastanza lampante, ed è resa in modo semplice ed efficace: la contraddizione inevitabile (e forse insanabile) tra la piena realizzazione dell’individuo (della quale l’aspetto relazionale di coppia rappresenta un mattone fondamentale) e la tendenza della società, di tutte le società in quanto tali, a irreggimentare e incanalare tali aspetti in forme standardizzate e quindi controllabili, ma di fatto castranti per il singolo individuo. In tal senso è da leggere la presenza di questa sedicente “resistenza” che sopravvive nei boschi, in una solo apparente analogia con gli uomini-libro di Fahrenheit 451 (questi ultimi in realtà molto più positivi e infinitamente più poetici): il malcapitato David si accorgerà presto di aver sostituito una società assurda con un’altra di segno opposto, ma altrettanto assurda.
La relativa sicurezza a livello di pura sopravvivenza che offre la vita in una società organizzata si paga sempre e comunque tragicamente con la perdita della propria individualità: non c’è scampo, non c’è alcun compromesso. Il tema viene reso da Lanthimos grazie ad una regia volutamente statica, ingessata, frontale (come le regole della società immaginaria del racconto), coi movimenti di macchina ridotti al minimo, e grazie ad una recitazione impersonale, asettica, fredda al massimo. Molto azzeccata la stridente contraddizione (solo apparente) di una società che obbliga per legge ai rapporti sentimentali, e che poi reprime in modo assolutamente distaccato ed educa i suoi membri a infliggere dolore in modo insensibile e disempatico. Alla fine, solo gli animali sembrano vivere serenamente le loro vite, e quindi paradossalmente la punizione finale assume via via i contorni di una liberazione.
C’è poi, come in tutti i film di questo genere, il tentativo non troppo velato di far emergere le assurdità della società contemporanea, estremizzandole: l’ansia che si impadronisce di chi non è impegnato con nessuno, dovendo dimostrare di volta in volta a parenti, amici, società e (peggio di tutto) se stesso di potersi mettere “in pari” col modello imperante, viene riflessa nei corteggiamenti assurdi e nella spasmodica ricerca di improbabili “affinità elettive” da parte di David verso altrettante improbabili partner, con effetti amaramente grotteschi.
Ed è forse qui che l’intero castello costruito dal regista un po’ si perde, e la lettura diventa difficile (in un certo punto si capisce che essere solitari è la Rivoluzione, e il rapporto di coppia è il Male e pure discretamente reazionario, mentre mezz’ora dopo tra i ribelli la chiave di lettura si ribalta e quasi quasi si finisce per simpatizzare per l’Ordine Costituito): i piani di lettura si accavallano, le sensazioni si affastellano, e ad un certo punto si ha l’impressione di non avere riferimenti, e che l’umanità nuoti in un mare di melma senza speranza di redenzione. A parte questo il film è comunque un’esperienza cinematografica diversa dal solito, non fosse altro che per la curiosità di vedere un cast hollywoodiano (Colin Farrell, Rachel Weisz, Lèa Seydoux, John C. Reilly tra gli altri) alle prese con uno standard lontanissimo dallo Star System, ma che nonostante questo non se la cava affatto male.
– Luca Tersigni –
- La riflessione su coppia e famiglia come pure sovrastrutture della società e non come elementi “naturali” dell’esperienza umana;
- La prova del cast, stranamente a suo agio in un film lontanissimo dagli standard e dai linguaggi hollywoodiani;
- La confusione e l’affastellamento dei punti di vista e dei piani di lettura;
- Il nichilismo di maniera;