Quanto ci dice Patrick Rothfuss riguardo agli uomini, per bocca del protagonista de “La Paura del Saggio”, indubbiamente vale anche per libri e racconti: alcuni sono delle pietre rare e insolite, che attraggono immediatamente per la loro singolarità e bellezza, salvo venire poi abbandonati quando la novità passa; altri sono minerali allo stato grezzo, a prima vista ricchi di scorie e impurità ma ai quali, terminata l’opera di rifinitura, ci si affeziona per lungo tempo.
Indubbiamente “Il Sigillo di Khor” (Twins Edizioni) si ascriverebbe alla seconda categoria, e in particolare per quanto riguarda le imperfezioni. Il romanzo, debutto dell’autore Giuseppe Graceffa nella letteratura fantasy più classica, getta uno sguardo dissacrante e iconoclasta ai tropi del genere, partendo da una base che più archetipale non si può, quella del viaggio iniziatico dell’eroe e del romanzo di formazione, per precipitarla fin dal primo capitolo in una spirale di opportunismo, tradimenti, menzogne e sovvertimenti degni del più cinico Abercrombie. Al tempo stesso, l’opera risente di una lunga lista di leggerezze e carenze sul piano sia stilistico che editoriale, che inficiano la qualità generale e zavorrano pesantemente il giudizio di un testo che, lungi dall’essere un capolavoro, si sarebbe comunque potuto guadagnare una menzione ben più lusinghiera.
Come si è detto, la struttura generale della trama è piuttosto lineare: fin dal principio seguiamo le disavventure del giovane Ariel, figlio di Arald, erede della stirpe dei Kennar, una delle famiglie nobiliari del regno di Aram. Dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse all’ombra del proprio illustre genitore, condottiero e statista stimato e rispettato in tutto il regno, il nostro eroe in erba si sta giusto apprestando a lasciare la casa paterna per intraprendere una carriera militare, quando alla vigilia della partenza il suo feudo viene assalito dal malvagio lord Teran Haggard. Avendo evidentemente spento il proprio buon senso, il solitamente brillante Arald spalanca le porte della propria casa all’esercito invasore, esercito che prontamente massacra ogni singolo abitante della tenuta e si impossessa di un manufatto magico di enorme valore.
Vedendo morire davanti a sé tutti i propri amici e compagni di infanzia, Ariel, unico superstite, si decide a percorrere la strada della vendetta, che lo porterà ad attraversare da un angolo all’altro il continente, raccogliendo amici e alleati, scoprendo i segreti della propria casata, e trovandosi coinvolto nel rinnovamento secolare dell’antica e mai sopita lotta tra il Bene e il Male.
Il tono della narrazione si mantiene rapido e sfocato, quasi fiabesco: descrizioni e dialoghi in prima persona sono ridotti al minimo, come la caratterizzazione dei personaggi, la storia, la geografia, e in generale la mitologia del mondo.
In primo luogo, non si ha assolutamente idea né di come questo innominato continente sia strutturato, né di quali siano le razze e le culture che vi abitino: nomi come Aram, Allene, Assuria, i Monti del Ghiaccio, saltano fuori a intervalli semi-regolari, ma la mancanza di una mappa rende il tutto assai nebuloso e inconsistente. Siamo in presenza di un espediente talvolta utilizzato in letteratura fantasy (caso celebre è Sapkowski, il papà di Geralt di Rivia) mirante ad alimentare il senso di incertezza e mistero permeante una società arretrata come quella simil-medievale: qui, tuttavia, il risultato è più quello di disorientare il lettore, che si trova costretto a rivedere a più riprese la scala su cui si giocano gli eventi, e presto si spazientisce nel domandarsi quale ulteriore regno il Graceffa tirerà fuori per giustificare l’ennesima scena di battaglia o declinazione del tema “gli esseri umani sono malvagi ai limiti dell’idiozia”.
Il romanzo è infatti permeato da un generale e nichilistico senso di sfiducia verso tutto e tutti: con l’eccezione del miglior amico di Ariel, un ex-prostituto dalla dubbia utilità il cui unico tratto caratteriale risulta l’essere “affamato”, praticamente chiunque il protagonista incontri è infido, codardo, crudele, sessualmente deviante, con un’intelligenza pari a quella di uno scovolino da pipa, o una qualsiasi combinazione di questi tratti. Evidente è in questo caso il desiderio di distanziarsi dalla tradizionale e anacronistica mentalità in bianco e nero di tante altre opere fantasy: al posto, però, di una tavolozza con le sfumature del grigio, qua sono tutti più scuri della biancheria di un orco diarroico.
Nota di demerito va poi addebitata al sistema di magia: premesso che il romanzo è tutt’altro che magic friendly, e che l’autore non si è dilungato nell’escogitare un impianto magico particolarmente complesso o originale, sappiamo che la Magia, nel continente, esiste ed è una forza reale… che però nessuno pare conoscere, o alla quale sembra che la gente dia peso, o che gli stessi incantatori si ricordino di poter usare. Viene utilizzata in appena un paio di occasioni, e nonostante in una di queste si dimostri un ingente moltiplicatore di forze, per la maggior parte del tempo i Soulamin (ordine di maghi-sacerdoti, incantatori ufficiali del continente) risultano assolutamente inermi o quantomeno non-intenzionati a farvi ricorso per perseguire i propri scopi o anche solo difendere la propria vita.
Tali inconsistenze e sbavature minano un affresco altrimenti pregevole per dimensioni, numero di soggetti, e strutturazione narrativa, all’interno della quale il viaggio di Ariel e le tante, piccole tragedie dei suoi comprimari e antagonisti si intrecciano l’una nell’altra, avviluppandosi e precipitando senza controllo fino all’amara, scioccante conclusione.
Una prova riuscita per metà, quindi, quella del Graceffa, autore tradizionalmente più impegnato sul versante fumettistico, come sceneggiatore dei titoli “Magdala”, “La Ricerca”, e “Le Sentinelle” (dal racconto di F. Brown), tutti e tre reperibili sul suo sito, e fantascientifico, con il volume “What is the Matrix?” (Edizioni Cineteca), dedicato alla trilogia dei fratelli Wachowski. Un esordio carico di entusiasmo, azzoppato a più riprese da un editing quasi criminale nella sua inefficacia, che lascia trasparire un po’ troppe sviste sintattiche e grammaticali, e da un’inesperienza con il genere letterario che si traduce in una sindrome da opera prima.
Non ci si può approcciare a “Il Sigillo di Khor” aspettandosi un capolavoro: ma accettando e sorvolando sui suoi limiti e criticità, regalerà un paio di pomeriggi di lettura spensierata e poco impegnativa.
– Federico Brajda –
Il Sigillo di Khor di Giuseppe Graceffa, la recensione
Federico Brajda
- Grande entusiasmo dell'autore, che traspare chiaramente e a più riprese;
- Approccio moderno e realistico a tematiche altrimenti piuttosto usurate;
- Il testo nasce già nella lingua di Dante, risparmiandoci errori e orrori di traduzione;
- Scarsa cura sia nel format che nell'editing;
- Narrazione rapida che a volte scade nella superficialità;
- Personaggi poco incisivi;