È da pochissimo uscito The Witcher 3 (qui trovate la nostra recensione), stiamo già avendo l’acquolina per il nuovo Star Wars: Battlefront (potete leggere la nostra anteprima qui), e chissà quanti altri giochi fantastici – e soprattutto fantasy – sui quali tutti noi vorremo mettere le nostre avide manine usciranno a breve, con l’E3 alle porte e con i tanti rumor che già iniziano a circolare. Ma tutti gli appassionati di questa forma d’intrattenimento ad un certo punto sono condannati a scontrarsi con una triste realtà, un insormontabile problema che di fantasy ha davvero poco: il prezzo dei videogiochi. Se non avete un conto degno di Paperon de’ Paperoni in una banca di gnomi e non siete a capo di una potente e malvagia multinazionale, allora probabilmente rientrerete anche voi nella categoria di quegli sfortunati che, per la loro passione, si ritrovano molto spesso a contemplare il portafoglio vuoto, chiedendosi come sia potuto succedere…
La risposta è semplice: i videogiochi costano tanto, anzi – non siamo ipocriti – forse troppo, e non sono certo io a dirlo, se anche Oliver Comte, vice presidente di Bandai Namco, ha ammesso che “un buon prezzo per i giochi dovrebbe attestarsi attorno ai 30 dollari“. Certo, i videogiochi sono sempre stati molto cari (ricordo ancora Final Fantasy VIII venduto a ben 140mila lire), ma è altrettanto vero che i tempi sono cambiati e che quello che prima era un passatempo per pochi, con un mercato modesto, oggi è un business che non conosce freni. Ovviamente sono cambiati anche i prodotti stessi, con videogame sempre più simili a kolossal hollywoodiani, sia per contenuti che per costi di sviluppo. Basti pensare che The Witcher 2 è costato solo 10 milioni di dollari, poca cosa in confronto al mezzo milione investito da Activision per il suo Destiny, una cifra mostruosa che fa impallidire persino i budget dei blockbuster cinematografici. Software house con centinaia di dipendenti impegnati per anni nello sviluppo di nuovi titoli, ecco spiegati, dunque, i prezzi così alti! Direi di no, o solo in parte. Perché non si spiega, allora il prezzo delle versioni home video dei film appena usciti, che raramente supera la ventina di euro, mentre per la gran parte dei giochi si toccano, all’uscita, i settanta. Sicuramente buona parte dei guadagni i film li ricavano dalla distribuzione nei cinema, dove le grandi produzioni riescono a incassare dai botteghini cifre astronomiche, ma, anche calcolando la diversa natura dei due settori, il prezzo dei videogame appare ancora incomprensibilmente alto. Spesso si è sentito dire che la causa di tutto è la pirateria, e che tocca alzare i prezzi per rifarsi delle vendite perdute. Ma credo che sia vero esattamente l’opposto: molte persone scaricano i giochi illegalmente proprio perché costano troppo.
Questo ovviamente non giustifica chi scarica illegalmente, né è mia intenzione farlo, ma credo che sia qualcosa su cui le case di distribuzione dovrebbero riflettere. Le stesse case di distribuzione che hanno i guadagni maggiori nella vendita di videogiochi, per non parlare dei rivenditori, i cui profitti vanno a peggiorare ulteriormente la situazione. Oltretutto questi signori hanno da tempo capito che quella del videogiocatore è una razza particolare, capace di spendere grandi somme per la propria passione senza starci troppo a pensare; il classico pollo da spennare, insomma, altrimenti non si sognerebbero nemmeno di mettere in commercio titoli incompleti a prezzo pieno, per poi rilasciare molti DLC a pagamento che completano il prodotto. Fermandosi un attimo a riflettere, chiunque capirebbe che è una truffa; è come se il vostro scrittore preferito vi vendesse un libro a cui mancano gli ultimi capitoli, venduti a parte. Ma con i videogiochi ha funzionato e funziona, tanto da essere considerata ormai la normale prassi. Per non parlare di limited, collector, ultra-super edition, per le quali gli appassionati sono disposti a sborsare cifre spaventose per ritrovarsi poi spesso con un libricino di artwork scovabili facilmente anche online e una statuetta realizzata con materiali scadenti. Non sempre è così, ma anche qui sono difficilmente comprensibili simili costi.
Insomma, chi è causa del suo mal pianga sé stesso, e questo è ancor più vero per quella categoria masochista che risponde al nome di videogiocatori. Fermo restando con la condanna alla pirateria, allora, cosa si può fare per coltivare la nostra passione senza indebitarsi con i suddetti gnomi? L’ideale sarebbe che i giochi venissero venduti ad un prezzo più onesto, e grazie alla distribuzione digitale questa sembra non essere più una semplice utopia. L’apripista di questa piccola rivoluzione virtuale fu Steam, nel lontano 2003, nata come piattaforma di distribuzione online dei giochi della Valve, estendendosi poi verso qualsiasi casa di sviluppo, ma sono sempre più le possibilità per chi sa cercare, e le più grandi case si sono adeguate, come la EA con la sua piattaforma Origin e Ubisoft con Uplay. Questo modo sicuramente più semplice ed economico di comprare videogiochi ha permesso anche a tanti piccoli sviluppatori di mettere i propri giochi in vendita su una vetrina importante, cosa che con il sistema di distribuzione tradizionale probabilmente non avrebbero potuto fare, così come probabilmente non sarebbe mai esistito il fenomeno dei giochi indie. Un discorso a parte, poi, meritano i rivenditori di chiavi di attivazione, che spesso offrono codici per scaricare giochi a prezzi stracciati, entrando in competizione proprio con queste piattaforme, come testimoniato dagli ultimi episodi di Ubisoft e la Zenimax di The Elder Scrolls Online, che hanno minacciato di invalidare le chiavi acquistate su questo tipo di siti.
In ogni caso questo nuovo sistema di distribuzione dei videogiochi permette a chiunque di trovare il prezzo giusto per la sua passione; certo, non si avrà la gioia di possedere una collezione tangibile e reale, ma nulla ci vieta, una volta giocato un titolo preso in digitale, di procurarcene anche una copia fisica se ci è particolarmente piaciuto, magari a pochi spiccioli una volta che il prezzo si è abbassato. Si tratta, in parole povere, di educare il mercato, invece di essere, come spesso accade, educati da esso.
– Davide Carnevale –