In queste ultime settimane Electronic Arts è stata sulla bocca di tutti: più recentemente per la questione dell’inserimento (e poi rimozione) di un invasivo sistema di microtransazioni nel nuovo Star Wars: Battlefront II, ma ancora prima per la chiusura dei battenti di una sua software house interna, Visceral Games, storico team di sviluppo di titoli quali Dead Space e Battlefield Hardline. Proprio questo evento mi ha portato, nei giorni seguenti, a riflettere su un paio di questioni.
“Cosa ci può essere da riflettere?”, direte probabilmente voi: le software house (specie quelle medio-piccole, spesso assorbite da qualche colosso dell’industria) vengono chiuse ormai più rapidamente di quanto cadano le casate di Westeros. Ciò che ha scatenato in me una riflessione più ampia sull’andazzo nel mondo dei videogames da un po’ di tempo a questa parte, in realtà non è tanto il fatto in sé, quanto il fatto che Visceral fosse al lavoro su un titolo action-adventure ambientato nell’universo di Guerre Stellari, e che la chiusura abbia messo in discussione non la sopravvivenza del titolo (affidato a quanto pare ad un altro sviluppatore), bensì quella che ora sarà la sua impostazione di gioco e la sua natura.
Le parole precise del vice presidente esecutivo di EA Patrick Soderlund sono state infatti poco equivocabili: “Visceral Games era al lavoro su di un action adventure ambientato nell’universo di Star Wars. Nella sua attuale forma, aveva i connotati di un’avventura a base narrativa. Durante il processo di sviluppo abbiamo testato il concept di gioco con alcuni utenti, ascoltandone il feedback a proposito di cosa e di come volessero giocare, nonché tenendo traccia di alcuni cambiamenti fondamentali nel mercato. È dunque diventato chiaro che per offrire un’esperienza su cui i giocatori vogliano tornare e continuare a supportare per un lungo tempo, serviva un cambiamento”.
In moltissimi hanno letto questa dichiarazione come l’ennesima prova (forse quella decisiva) del fatto che il mercato videoludico si stia spostando sempre di più dal videogioco single-player a quello multiplayer, e cioè che ci sia un passaggio dal videogioco come mezzo narrativo (seppur ovviamente interattivo) al videogioco inteso come piattaforma digitale “open world” che offra, più che la possibilità di interpretare un copione, semplicemente un palcoscenico e una scenografia sulle quali improvvisare le nostre storie.
È dunque questa la strada maestra imboccata dal settore videoludico? Una strada che vedrà sempre meno coinvolti, a monte della programmazione, autori e narratori di spessore, e che vedrà sempre più al centro la tecnica dello sviluppo di una piattaforma “di servizio” nella quale l’aspetto narrativo sarà quasi completamente demandato ai giocatori, con la somma delle loro azioni e delle loro interpretazioni?
La domanda biscardiana non dovrebbe suonare fine a se stessa, perché da una risposta affermativa potrebbe dipendere la graduale scomparsa dei giochi che hanno fatto della potenza narrativa e della qualità della scrittura il loro appeal principale.
Emblematica in tal senso potrebbe rivelarsi la parabola produttiva della saga di Dragon Age, che ha attualmente in sviluppo il quarto capitolo. Il capostipite Origins colpì pubblico e critica nel 2009 non tanto per la grafica, il sonoro o il gameplay, quanto per una qualità di scrittura sontuosa (come le intuizioni della Prole Oscura, dei Custodi Grigi, dell’Oblio come fonte di potere magico, e mille altre) e la profondità delle interazioni sociali – che, attenzione, erano per lo più scriptate.
Il secondo capitolo, pur se appesantito da non trascurabili pigrizie ed errori tecnici e di world design, rimase nel solco del predecessore, con una solida (per quanto non al livello di Origins) trama portante e un livello di scrittura dei personaggi non giocanti che toccò altezze vertiginose.
Inquisition, invece, segnò il tentativo di accoppiare al punto di forza della saga, ovvero la profondità narrativa, una struttura esplorativa open world alla The Elder Scrolls, aprendo di fatto la via al multiplayer. Pur nel generale consenso della critica, però, non è riuscito a sfruttare appieno né l’uno, né l’altro approccio, almeno a sentire molti dei fan del franchise (tra cui il sottoscritto, per quel che può valere).
Alla luce di tutto ciò, cosa possiamo aspettarci quindi dal quarto capitolo di una serie caratterizzata, fin dai suoi inizi, da un approccio narrativo preponderante rispetto a qualsiasi altra feature? Dragon Age 4 resterà fedele al suo stile o, seguendo la parabola produttiva sopra riportata, finirà per seguire le sirene della tendenza verso un più massiccio approccio multiplayer? Del titolo in sé si sa ancora molto poco: il fatto che Alexis Kennedy di Failbetter Games sia coinvolto nella scrittura è già una notizia, in quanto indicativa del fatto che una scrittura di fondo esista. Altri segnali vanno però oggettivamente nella direzione opposta, due in particolare su tutti: l’assenza di comunicazioni riguardo il progetto allo scorso E3 (che Bioware stia ripensando completamente l’impianto del gioco?) e il recente addio di Mike Laidlow, creative director che ha lavorato nella software house canadese per ben 14 anni (forse a causa di qualche disaccordo con alcune decisioni inaspettate del management?).
Sia come sia, lo scopriremo nei prossimi mesi. Personalmente le mie speranze vanno in una direzione ben precisa, essendo un deciso sostenitore del videogioco come mezzo per raccontare grandi storie più che come piattaforma di servizio per ambientarne di proprie, a maggior ragione per un franchise come Dragon Age.
Voi che ne pensate?
–Luca Tersigni–
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