Vi è mai capitato di contemplare un paesaggio, un luogo particolare, e provare quella sensazione inconfondibile di malinconia che dolcemente vi avvolge, legando quel posto a un momento particolare della nostra vita, ad un ricordo d’infanzia magari? Ecco, a me capita esattamente questo quando rivedo il logo della LucasArts, quell’uomo d’oro che alza le braccia al cielo, citando la scena finale del primo film di George Lucas, THX 1138, e che di volta in volta veniva scherzosamente modificato in base al videogioco. Questo inizio così nostalgico e malinconico è giustificato dall’epilogo, forse prevedibile ma comunque doloroso, di un marchio che ha fatto sicuramente la storia del videogame, e inizierò questa retrospettiva storica della LucasArts partendo proprio dalla sua chiusura, nel 2013, a seguito dell’acquisizione da parte della Disney di tutto l’impero del grande regista. La casa di Topolino, infatti, deve aver pensato bene che la storica divisione videogiochi della LucasFilm fosse ormai solo una spesa inutile, e senza starci troppo a pensare l’ha chiusa, licenziando circa 150 dipendenti e bloccando perentoriamente lo sviluppo degli ultimi due titoli della casa: Star Wars 1313, un action game in terza persona che pare ci avrebbe messo nei panni di un giovane Boba Fett, e lo sparatutto First Assault.
Questi due giochi, che quasi sicuramente non vedremo mai, stavano avendo comunque uno sviluppo molto, forse troppo, lento, e bisogna ammettere che Disney probabilmente può aver soltanto inferto il proverbiale colpo di grazia a una software house che ormai agonizzava, vivendo solo del fulgore dei tempi passati, e che forse molti ormai non ricordano neppure più. Stiamo parlando di un’altra era, dove le avventure grafiche spopolavano e dove il nome Lucas non era associato unicamente a Star Wars e Indiana Jones, ma a giochi talmente famosi da brillare di luce propria anche parecchio tempo dopo la chiusura della casa che li aveva prodotti. Parlo per esempio di Grim Fandango, uscito nel lontanissimo 1998, che pochi mesi fa ha avuto un suo remake, tornando in pratica disponibile per una generazione che non ne aveva mai sentito parlare, oltre che per uno stuolo infinito di fan che desideravano da tempo rigiocarlo. Parliamoci chiaro, Grim Fandango era e resterà un capolavoro, di un eleganza visiva e con una sceneggiatura unica, con quella ironia dissacrante che era il marchio di fabbrica delle avventure targate LucasArts.
Ma Grim Fandango è stata solo l’ultima delle loro grandi avventure grafiche: prima vengono altri grandissimi successi come Full Throttle, una sorprendente storia di bikers del futuro, o il delirante Day of the Tentacle, ricco di quel nonsense esilarante che troviamo anche in Sam & Max e soprattutto in uno dei capolavori più conosciuti della LucasArts, Monkey Island, probabilmente l’avventura punta e clicca più famosa di sempre. Questi e molti altri prodotti furono creati dal genio di autori come Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman, divenuti celebri proprio per questi giochi leggendari, che una volta allontanatisi dalla LucasArts raramente riuscirono a toccare di nuovo simili vette.
Un’altra è però l’avventura, tra quelle prodotte dalla LucasArts, che più di tutte mi ha appassionato, ovvero The Dig, un punta e clicca del 1995, una storia fantascientifica in cui il soggetto principale fu addirittura ideato da Steven Spielberg. Ma non era il solo grande nome dietro questo titolo per lo più sconosciuto e abbastanza sfortunato: la sceneggiatura venne scritta da Orson Scott Card, premio Hugo e Nebula per il celebre romanzo “Il gioco di Ender”. Il titolo presenta un mondo alieno davvero originale e credibile, ricreato alla perfezione attraverso disegni dai colori vivaci, e una storia piena di mistero che spinge a non staccarsi dal monitor risolvendo enigmi dopo enigmi, alcuni davvero complessi, anche a causa proprio della tecnologia extraterrestre, difficile anche solo da comprendere. Queste sono solo alcune delle caratteristiche di questo gioiellino misconosciuto, con una grafica che ormai è difficilmente digeribile ai più; non resta che la tenue speranza che un giorno lo ripropongano con un edizione tecnicamente ripulita e al passo con i tempi. Per gli stomaci più forti e per i retrogamers che non hanno paura di nulla, invece, il consiglio è di provarlo assolutamente.
Ma è impossibile parlare della LucasArts senza citare Star Wars, l’universo fantascientifico/fantasy che rappresenta il più grande successo di George Lucas e che non poteva non essere sfruttato in tutte le sue forme, anche videoludicamente parlando. Sono tantissimi, infatti, i titoli basati su Guerre Stellari, distribuiti nei più diversi generi, dai simulatori di volo ai giochi di ruolo. Abbiamo, per esempio, Star Wars: Rogue Squadron, che ha vinto l’Origins Award come Miglior Gioco per Computer del 1998, per chi si sente un po’ come Biggs e Wedge, in cui si possono pilotare le astronavi più famose della prima trilogia, dalle celebri X-Wing al Millennium Falcon, vero e proprio simbolo della saga. Quando poi Doom segnò il fenomeno degli sparatutto in soggettiva, la LucasArts non si fece trovare impreparata, pubblicando nel 1995 il primo capitolo della serie Jedi Knight, Star Wars: Dark Forces, basato sulle avventure del Cavaliere rinnegato Kyle Katarn, gioco che avrà subito un seguito nel 1997, Star Wars: Dark Forces II. Ma il titolo più importante e riuscito di questa saga è sicuramente Jedi Knight: Jedi Outcast del 2002, forse ancora oggi il videogioco con i combattimenti di spade laser più epici e riusciti di sempre. Allo sparatutto in prima persona, infatti, veniva affiancata una modalità in terza nel momento in cui si utilizzava la lightsaber, e questo, unito ad una grafica allora talmente sbalorditiva da essere ancora oggi, a distanza di tredici anni, piuttosto gradevole e alla possibilità di utilizzare i poteri della Forza, rese questo titolo indimenticabile. Nell’ottimo Star Wars: Republic Commando, invece, vestivamo i panni del leader della Squadra Delta durante la Guerra dei Cloni, con la possibilità di gestire la propria squadra di assalto impartendo ordini ai compagni. Anche nel campo degli strategici la LucasArts non si fece sfuggire l’occasione di sfruttare il celebre marchio con il discreto Empire at War, così come per i giochi di azione, con i due The Force Unleashed. Ma il risultato più alto è stato raggiunto sicuramente nell’ambito dei giochi di ruolo, con un titolo indimenticabile come Star Wars: Knights of the Old Republic, sviluppato in collaborazione con Bioware. La storia del Signore dei Sith Revan, del suo apprendista traditore Darth Malak e della Jedi Bastila è talmente profonda e appassionante da essere stata definita dai fan superiore addirittura alla trama dei film, e non è un giudizio dato con leggerezza. Knights of the Old Republic rimane uno dei videogiochi più belli di sempre, il punto più alto raggiunto da Bioware e un gioco di ruolo che fa impallidire le attuali grandi produzioni, a testimonianza che una grande storia può rivaleggiare con qualsiasi grafica ultramoderna, se è semplicemente uno splendido involucro privo di contenuto.
I nuovi videogiochi, in fondo, si sono avvicinati sempre più al mondo cinematografico, e ironicamente un’azienda come la LucasArts, nata come costola della LucasFilm, ha trovato in questo la sua fine, l’esaurimento della sua forza creativa e innovatrice. Purtroppo, dopo questo primo periodo in cui ci siamo sentiti sopraffatti dal dispiacere e dalla rabbia nel vedere questo pezzo di storia andare in pensione, a mente fredda possiamo dire che Disney non ha fatto altro che mettere la parola “fine” ad una parabola che si era già conclusa, ma che non di meno continuerà a brillare fulgida nell’orizzonte del mondo videoludico, come quel sole splendente a cui l’uomo d’oro della LucasArts protendeva le braccia.
– Davide Carnevale –