Ci sono diverse teorie scientifiche sul perché i genitori abbiano un figlio preferito, ma la più popolare consiste nel riconoscere il primo sia quello che suscita un impatto emotivo più significativo e, soprattutto, sia quello a cui i genitori riescono a dedicare maggiori attenzioni. Come si può intuire dall’approccio intrapreso, queste ricerche sono effettuate e diffuse da statunitensi, i quali hanno un talento straordinario nel rifiutare la validità di culture diverse dalla propria e spendono finanziamenti di ogni genere per ricerche astruse quanto irrilevanti; adottando una visione più concreta non si può che riconoscere i fattori in ballo, in effetti, siano decisamente più numerosi e si estendano su un campo che va a toccare i rapporti tra genitori, i credi sociali e le fedi religiose.
Capita spesso, per esempio, che il secondo nato scalzi il primogenito nella clasifica dei favoritismi genitoriali, soprattutto qualora i procreatori abbiano gettato le fondamenta della propria famiglia troppo prematuramente – che sia per questioni emotive o per problemi economici – finendo col soppesare cautamente l’introduzione di un nuovo membro in famiglia e accettando la possibilità solamente nel caso si verifichino i presupposti necessari. Forti dell’esperienza accumulata, i parenti possono dedicarsi al nuovo nato sfruttando al meglio le risorse a disposizione, migliorando la qualità stessa delle cure regalategli e ricavandone in cambio una soddisfazione salva da frustrazioni. Ovviamente vi sono molte altre realtà, ma questa nello specifico risulta essere molto affine alla parabola intrapresa da James Cameron e dai suoi terminator.
Terminator, come già menzionato, era null’altro che uno slasher-movie dal budget irrisorio finito col rivelarsi un successo di proporzioni inaspettate, successo in grado di lanciare regista e attori nell’olimpo delle celebrità; va da se che lo staff intero fosse interessato a portare avanti l’esperienza con un sequel che andasse a introdurre tutte quelle idee che – per sintesi o per alti costi – erano state strappate alla pellicola. Consapevole delle potenzialità della sua creazione, Cameron voleva ora puntare molto in alto, rifiutando di fatto i 12 milioni di dollari che gli avevano proposto inizialmente come fondo e temporeggiando fino a che i tempi fossero maturi.
Passarono 5 anni – o due mogli, se volete scandire il tempo come fa il suddetto regista – e il progetto non pareva avanzare in alcun modo a causa di evidenti ostacoli di natura pecuniaria, dovette intervenire Schwarzenegger in persona prima che la situazione si sbloccasse. Con un finanziamento di 75 milioni (che sarebbero comunque lievitati oltre i 100), la troupe si riunì, iniziando le riprese nell’ottobre 1990.
A seguito degli eventi del primo film, Sarah Connor (Linda Hamilton) ha accettato definitivamente l’esistenza di un futuro in cui le macchine, nel lontano 29 agosto 1997, prenderanno il controllo del pianeta sterminando buona parte dell’umanità e costringendo i superstiti a combattere sotto il vessillo dell’eroe della resistenza John Connor, suo figlio. Gravata dall’essere la madre del messia, la donna passa dieci anni ad addestrare sé stessa e il pargolo a ogni genere di tecnica di guerriglia ai limiti del terrorismo, finendo con l’essere rinchiusa in un centro di salute mentale nel momento in cui cerca di fare detonare la fabbrica militare che darà vita all’intelligenza artificiale Skynet, promotrice del genocidio umano. Il giovane John (Edward Furlong), dal canto suo, si trova assegnato a una borghesissima famiglia di Los Angeles, reagendo con rabbia alla situazione, oramai convinto sua madre sia una psicotica che gli ha rovinato l’esistenza, ma trovandosi allo stesso tempo a disagio in un contesto tanto normale.
Nell’estate del 1994 le strade sono sconvolte dall’arrivo di due terminator dal 2029, due robot incaricati con missioni drasticamente diverse: uno è il top della gamma, un T-1000 (Robert Patrick) composto totalmente da un metallo liquido semi-indistruttibile il cui scopo è terminare il ragazzo per troncare alla base i grattacapi che darà alle intelligenze artificiali, l’altro è un obsoleto quanto familiare T-800 (Arnold Shwarzenegger) riprogrammato perché protegga il suddetto bersaglio dagli assalti del suo simile.
John scoprirà presto che le dichiarazioni materne, per quanto farneticanti, corrispondevano a verità, decidendo di usare la sua nuova macchina assassina per liberare la madre – che era già li-li per evadere, a dire il vero – e cercare di cambiare il futuro, il tutto con un mostro inarrestabile che cerca di reclamare la sua vita.
Terminator 2 – Il giorno del giudizio offre un’esperienza molto simile a quella del suo predecessore, arrivando al punto di emularlo con riferimenti che sarebbero divenuti ricorrenti all’interno dell’intera saga, ma allo stesso tempo si eleva decisamente al di sopra del suo illustre predecessore, in buona parte eclissandolo. Dettaglio immediato e evidente è lo sbalzo qualitativo permesso dalla generosità della produzione, un dislivello che si nota non solo dagli effetti speciali, ma anche dalle coreografie, dalla cura messa in post/pre-produzione e, addirittura, dalla grana della pellicola. T2 (usando l’abbreviazione di giostre e videogames) sovrasta sul piano tecnico molti altri film dell’epoca, sapendo dosare con parsimonia gli effetti pratici con quelli computerizzati, precedendo di un paio di anni le eccellenze dettate da Spielberg in Jurassic Park, guadagnando 4 oscar da suddividersi tra effetti visivi e musiche inizialmente scandite a ritmo di padella.
Il film adotta un approccio decisamente più maturo e profondo, evolvendo l’innata critica cameroniana all’abuso delle scoperte tecniche/scientifiche (Pirana paura, Aliens, Titanic, Avatar), esplorando – per quanto possibile in un film action degli anni ’90 – la natura dei sentimenti umani.
Nel copione, scritto da Cameron e William Wisher Jr., per esempio, si sfrutta il pretesto dei viaggi nel tempo per proporre un’attenta e sensibile analisi sulla possibilità dei singoli individui di intervenire su un destino che sembrerebbe già segnato, sondando gli effetti psicologici ed emotivi delle persone che affrontano disperatamente l’ineluttabile. In tal senso, la pellicola non fornisce vere e proprie risposte, lasciando un’ambiguità oculatamente adottata per garantire spazio ai sequel (l’originale finale positivista venne scartato molto velocemente).
È necessario, inoltre, notare come Terminator 2 contraddica spesso le logiche e regole introdotte dal primo lungometraggio, quasi volesse imporvisi retroattivamente e rubarne il posto di capostipite. In effetti, sebbene il Terminator del 1984 si sia dimostrato di successo, è quello del 1991 ad aver garantito longevità e immortalità alla serie, marchiandola a fuoco nella nostra memoria con un pessimo seguito che è anche un grande film.
-Walter Ferri-