Fantascienza e temi sociali: che connubio! Non c’è problematica che, in qualche modo, non sia filtrata in questo genere per essere considerata, rivalutata e, talvolta, risolta anzitempo. Perché la fantascienza, essendo proiettata nel futuro, è in grado di immaginare società basate su principi diversi, più saggi e più paritari di quelli moderni. In fondo, nel futuro tutto è possibile e, poiché tutto può accadere, la base sociale può essere diversa e il problema più alieno rispetto a quelli reali.
Il tema sociale di quest’oggi è l’integrazione della donna nelle opere sci-fi.
C’era una volta quel pazzo di George Méliès, che in Viaggio nella Luna, ci racconta della società dei seleniti (gli abitanti della Luna) i quali sono verdi, con chele e becchi…tipo dei pentapalmi, li avete dalle vostre parti? La peculiarità del re di questi alieni era di accompagnarsi a sette donne, le stelle dell’Orsa, perfettamente umane. Gusti strani, per uno con chele e becco, ma per lungo tempo la fantascienza ha accostato ad esseri mostruosi donne molto belle, usando la loro presenza solo come un’attrattiva per il pubblico maschile. E, difatti, per lungo tempo l’interesse verso la sci-fi è stato prevalentemente maschile.
Ci sono voluti gli anni Ottanta e soprattutto Novanta per portare alcune donne, comunque in percentuale minore, ad interessarsi di questo genere. E di acqua sotto ai ponti ne è passata prima di arrivare alla principessa Organa e all’ufficiale Ripley, che rivestono un ruolo paritario rispetto alle controparti maschili.
Nonostante tutto, però, è sbagliato dire che, dagli inizi del Novecento fino alla fine dello stesso secolo, la situazione sia stata solo quella di Méliès. Infatti ci sono alcuni interessanti esempi di come le produzioni sci-fi, e in particolare quelle televisive, hanno cercato di ribaltare la situazione.
Il primo caso da citare è quello in parte sfortunato del tenente Nyota Uhura in Star Trek. Tutti la ricordiamo per le sue due o tre frasi iconiche in cui annuncia l’apertura o l’arrivo di una comunicazione. E nulla più, perché nella serie classica Uhura non fa altro. In Star Trek il ruolo delle donne – perché vi ricordo che il tenente non è l’unica – è limitato ad una parte marginale, come quella dell’infermiera (molto classico per le donne, che anche durante le guerre storiche detenevano gradi militari specificamente dedicati alla gerarchia dei medici da campo). Dal punto di vista delle aliene, invece, ne troviamo in pericolo, che vengono salvate dal capitano Kirk (cui troppo spesso, per non dire sempre, si concedono), o in ruoli spalla degli antagonisti, ma senza un reale potere decisionale sulle trame.
Perché, allora, Uhura è fondamentale dal punto di vista sociale e fantascientifico? Perché è la prima donna con un ruolo militare paritario rispetto ai colleghi uomini e, per giunta, è nera in un momento storico molto delicato. La prima serie di Star Trek debuttò in America nel 1966, cioè durante le lotte razziali capeggiate dal reverendo Martin Luther King con l’obiettivo di eliminare definitivamente la segregazione dei neri. Quando Nichelle Nichols manifestò la sua volontà di abbandonare la serie – perché troppo frustrata da un ruolo così insignificante – il reverendo la invitò invece a continuare a recitare in Star Trek, riconoscendo fondamentale la sua presenza come donna di colore in una serie così amata dal pubblico di tutto il mondo.
Se consideriamo il ruolo sociale di Uhura, ha cinque primati fondamentali: prima persona nera con ruolo di comando, prima donna con ruolo di comando, prima donna nera con ruolo di comando, prima donna a mostrare l’ombelico in una serie tv e prima coinvolta in un bacio interrazziale. Wow!
Detto questo, si capisce perfettamente perché Luther King la invitò a tenere duro. Il vero dispiacere è che l’anno del bacio interraziale, il 1968, fu anche quello della morte del reverendo, ma da ammirare è il messaggio sociale che Star Trek ha voluto dare a tutto il mondo. In generale, non solo con la presenza di una donna, ma anche di una persona di colore, di un cinese, di un russo e di un mezzo alieno (il signor Spok). Evviva l’interrazzialità, quindi, ed evviva anche le donne, che in modo esiguo – a causa del gusto dell’epoca – cercano comunque di essere importanti.
D’altro canto, più i tempi sono avanzati, più Star Trek ha cercato di restare al passo, arrivando giustamente ad affidare le chiavi (codici) della “Enterprise” (no, della USS Voyager!) ad un comandante donna, il capitano Kathryn Janeway. Indicativo è il fatto che voci di corridoio suppongono che il cognome di Kathryn sia stato scelto come omaggio alla scrittrice femminista Elizabeth Janeway… ho detto tutto, posso chiudere qui l’articolo.
No, invece, no… ci avevate sperato, eh?
Un’altra piccola curiosità, sempre riguardo a Star Trek – Voyager è che, quando gli ascolti sono calati, al posto che tornare ad un capitano uomo e cambiare serie, è stato deciso di introdurre un’altra donna, l’amatissima Seven of Nine. Come se non bastasse, visto che la stessa serie contava anche una terza donna di spessore, l’ingegnere capo B’Elanna Torres… mezza klingon e mezza umana. Epic wow: Voyager è stata la serie più femminista di Star Trek!
Ma era il 1995, cioè quel periodo in cui la sci-fi si stava affrettando ad integrare la presenza femminile nei cast, e non più solo come infermiere, segretarie, pesi morti, corpi in vetrina, personaggi sacrificabili, principesse da salvare e androidi complessati.
E ora, nel 2014, sebbene ci sia ancora qualche difficoltà tecnica, ci sembra per lo meno normale che la donna sia integrata nei ruoli decisionali al pari degli uomini.
Ma una volta non era così semplice.
Eppure il paese in cui è nata la serie di cui parlerò fra qualche riga, è sempre stato “speciale”, perché spesso e volentieri governato da donne. “God save the Queen!”, sì illyoners, sto parlando del Regno Unito, la nazione che ha visto donne forti come Mary Stuart (o Bloody Mary), Elizabeth I e Victoria, che addirittura ha guidato la colonizzazione, quindi la trasformazione del suo stato in un impero. E ha visto donne piuttosto peperine, non solo Anne Boleyn che ha scombussolato un governo, ma anche Mary Shelley, la quale è stata una delle prime donne veramente indipendenti in un periodo storico che le pretendeva soggette o ai padri o ai mariti: lei, alla morte dell’amante che poi è riuscita a sposare, ha preteso di crescere da sola i propri figli… come farebbe oggi una vedova o una divorziata. E che ha scritto uno dei capolavori della fantascienza: Frankenstein; or the modern Prometheus. Sì, sotto la Union Jack sono nate donne veramente degne di essere ricordate. E fra queste si annoverano le companions di un importantissimo personaggio della sci-fi: il Doctor Who.
“Dottore, chi?” – dodici attori hanno interpretato questo personaggio amatissimo non solo dagli inglesi (in UK è quasi un eroe di stato). Dodici dottori per 33 anni di longevità della serie, 34 stagioni, 798 episodi, 20 speciali, innumerevoli extra fanmade e 42 companions, di cui la maggior parte sono donne.
A parte la curiosità del numero 42, puramente casuale seppur costituisca la Risposta Ultima per ogni appassionato di sci-fi, ci pensate a quante sono state le spalle del Dottore? Tantissime, e hanno annoverato donne forti in epoche molto diverse.
Il primo episodio di Doctor Who venne trasmesso nel 1963 (prima di Star Trek!), quando in Inghilterra la donna già votava da una quarantina di anni, ma ancora era sottoposta alle convenzioni dell’epoca. Era il pieno dei movimenti femministi del Novecento, un momento molto significativo per introdurre una donna, una professoressa per giunta, come spalla ad un personaggio che, seguendo le orme di altri precursori, rischiava di raggiungere una fama immediata. L’esperimento riuscì alla perfezione e a Barbara Wright, la prima companion, spettò anche il compito di essere quella che, davanti ai primi sbotti d’ira del Dottore, prende il controllo della situazione e lo ferma prima che faccia qualcosa di irreparabile. Tutti i companions fanno questo, ma è significativo che, già dagli anni Sessanta, possano farlo anche le donne.
Di recente, poi, la questione ha assunto sfumature molto interessanti. La prima companion moderna è Rose Tyler, la tipica ragazza della porta accanto. Fa la commessa, ma non per questo agli occhi del Dottore (un alieno) appare meno importante di altre persone: è di lei che il Decimo Dottore, magistralmente interpretato da David Tennant, si innamora. Un’umana, che faceva la cassiera. Rose viene seguita da Martha Jones, una sorta di Uhura moderna: è una tirocinante di medicina ed è di colore. Con lei gli sceneggiatori giocano in modo molto divertente, perché in un episodio ambientato sulla Terra nel 1599, si apre la strada dichiarando di essere un medico… e tutti la guardano come fosse un’aliena. Perché è una donna. Perché è nera. Questo genera scalpore fra le persone del 1599, ma a noi fa sorridere, perché siamo oltre questa differenza. Tuttavia, non c’è da dimenticare l’importanza che serie come Star Trek e Doctor Who hanno avuto per l’abbattimento delle diversità.
Forse oggi ci sembra non sia così, perché adesso le compagne del Dottore sono quasi più forti di lui: lo zittiscono, gli gridano contro, lo esortano a fare la cosa più buona quando lui vorrebbe fare solo la più giusta. Ci sembra normale, come ci sembra normale vedere al cinema una Emily Clarke nei panni della “Metal Bitch” Rita Vrataski che trascina un più debole Tom Cruise / William Cage e lo costringe a svegliarsi, a diventare uomo e a salvare il mondo. Il tenente Uhura e le vecchie compagne del Dottore non hanno un grande impatto, non suonano come unghie sulla lavagna. Provate però ad immergervi in un mondo dove la donna non è niente: beh, in quel contesto la fantascienza ha davvero stravolto tutto.
Spererei possa continuare ad essere così. Vorrei davvero che la sci-fi potesse ancora prendere un problema odierno, sezionarlo, proiettarlo nel futuro e risolverlo con la stessa saggezza, lungimiranza e la stessa capacità di intrattenimento di un tempo.
– Elena Torretta –