Nell’articolo precedente abbiamo visto, dopo un’iniziale riflessione ad ampio spettro, un esempio di videogioco di ruolo con un valore estremamente alto sulla scala della Libertà ed uno piuttosto basso su quella della coerenza della Trama: ‘Skyrim’. Oggi continua la nostra rassegna – naturalmente priva della pretesa dell’esaustività.
Vediamo in primo luogo un esempio di gioco tutto-trama: non è facile trovarne, fra i videogiochi di ruolo, dal momento che un altissimo valore di Trama ed un valore pressoché nullo di Libertà vengono giudicati, a torto o a ragione, del tutto estranei al novero degli rpg. Eppure, chi scrive ritiene di averne individuato almeno uno: ‘Dragon Age II’, il secondo capitolo della saga videoludica, quello che ha spaccato a metà pubblico e critica. A circa cinque anni dal “colpo”, riflettendo a mente lucida, è evidente come questo seguito un po’ frettoloso (2011) e dotato di molto potenziale inespresso non sia riuscito a reggere il fardello dell’eredità lasciatagli da ‘Origins’ (2009). Al di là degli aspetti mille volte criticati, come la palese ripetizione di interi dungeon e la virata action del gameplay, ciò che ha forse colpito maggiormente il pubblico di aficionados dell’Era del Drago è stato senza dubbio il calo di “peso” della componente ruolistica. Ora, intendiamoci: neanche il precedessore era un videogioco free-roaming o open world, ma la libertà di spostarsi da un’ambientazione all’altra c’era eccome e si sentiva, così come una notevole differenziazione della trama – e finanche delle quest secondarie – in base alle scelte operate dal giocatore. Porti Morrigan alla Torre del Circolo dei Maghi? Non avrai Wynne in squadra. Mai. Persino il finale poteva presentarsi assai diversamente a seconda delle nostre scelte precedenti. E la libertà di girovagare per il Thedas era comunque compressa dall’avanzare del Flagello, una spada di Damocle la cui avanzata non poteva essere trascurata.
‘Dragon Age II’ perdeva entrambe queste componenti: la libertà di movimento era severamente limitata nell’ambito dei Liberi Confini, se non addirittura entro la sola città di Kirkwall; le scelte si riflettevano su conseguenze minori, quali la sparizione dalla storia di alcuni personaggi o il loro permanervi, mentre in termini di macro-intreccio narrativo risultavano perfettamente ininfluenti. Tra Maghi e Templari si era comunque costretti a scegliere, anche se uno – idealmente – poteva trovare odiose ed irritanti entrambe le fazioni. Ma la cosa più drammatica era scoprire che, in definitiva, la scelta tra l’una e l’altra incideva unicamente sul diverso ordine in cui affrontare i due boss finali.
Per converso, il capitolo iniziale sembrava in grado di regalare un equilibrio straordinario fra Trama e Libertà, anche senza le velleità open world della Next-Gen; dopotutto la Bioware si era già fatta le ossa lavorando sul primo capitolo di ‘Knights of the Old Republic’ (2003), legato – inutile dirlo – all’Universo Espanso di ‘Star Wars’. Questo videogame, che oggi reclama a gran voce un secondo fratellino, presentava – al pari di ‘Dragon Age Origins’ – un equilibrio poco meno che perfetto: una grande libertà di esplorazione e di diversione con le quest secondarie; un sistema di scelte e conseguenze legato all’allineamento; una solida trama principale il cui esito cambia in base alle precedenti scelte ed azioni del giocatore, che si riflettono anche nell’aspetto fisico dell’Esule Jedi (come accadrà, in misura minore, con i punti Paragon e Renegade in ‘Mass effect’… sempre della Bioware).
Ma bando alla nostalgia: le speranze di coloro che, come chi scrive, hanno amato a dismisura il connubio fatale fra Trama e Libertà offerto da ‘Origins’ e dalla serie ‘Mass Effect’ sono riposte nel terzo ed ultimo – per ora – capitolo della serie ‘Dragon Age’: ‘Inquisition’, la cui release è prevista per il prossimo 20 novembre, sempre a firma della Bioware. La promessa è quella di un’ambientazione semi-open world, con delle macro-aree di dimensioni gigantesche liberamente esplorabili, piene di vita mostruosa e animale e di quest secondarie in cui perdersi per decine e decine di ore di gioco. Confermata la presenza di un hub centrale personalizzabile, come la ‘Normandy’ di ‘Mass effect’, ma ovviamente legato all’ambientazione fantasy medievale del gioco: la fortezza di Skyhold. Al tempo stesso, la Bioware ha insistito sulla solidità della trama centrale e soprattutto – udite udite! – sull’ampia personalizzazione dell’avatar videoludico (con scelta di sesso, classe e, come in ‘Origins’, razza!) e sulla libertà d’azione e di scelta del giocatore, con consistenti influenze sugli sviluppi della storyline principale e su quelle secondarie.
Nelle diverse demo mostrate al pubblico, ad esempio, si vede il nostro Inquisitore posto, fin dai primi minuti di gioco, davanti ad una scelta drammatica: durante un combattimento con delle truppe nemiche dovrà decidere se concentrare tutte le forze sul campo di battaglia o se inviare un distaccamento presso il vicino villaggio, salvando gli abitanti, ma rischiando di compromettere le proprie possibilità di vittoria. Se si sceglie di concentrarsi sulla battaglia in corso, il villaggio verrà conquistato e raso al suolo, cosa che causerà un inasprimento dei rapporti con alcuni membri del party che avrebbero voluto prestare soccorso e determinerà la sparizione di alcune quest secondarie, legate alla popolazione autoctona. Per non parlare del fatto che ci farà sentire dei vermi schifosi, anche se probabilmente era la scelta giusta da prendere. Ecco riassunta in poche righe la magia dell’immedesimazione dei giochi Bioware, per inciso.
Non sappiamo, allo stato, se le promesse verranno mantenute, ma se così fosse potremmo essere davanti al Santo Graal che andavamo cercando e che sembrava perso fin dai tempi dei videogame sopra citati: un perfetto equilibrio tra Libertà e Trama, in cui quest’ultima si adatti alle conseguenze delle libere scelte del giocatore nella cui armonia, viceversa, la Libertà non sia tale da portare allo smarrimento della coerenza interna della Storia che la software house canadese ci sta raccontando. E che, in definitiva, noi per primi stiamo raccontando a noi stessi.
– Stefano Marras –