A volte basta esclusivamente un sostantivo per evocare dentro di noi un mondo, un ambito o addirittura un intero genere. Se dico la parola “drago”, tutti noi, istantaneamente, pensiamo a qualche film, libro od altra opera, ma comunque riconducibile al fantasy. Anche chi è indifferente o odia il genere, inevitabilmente finirà per pensare “a quella cosa lì”. Pure la fantascienza è stracarica di sostantivi simili: “astronave”, “laser”, “iperspazio”, per citarne solo alcuni, contestualizzano immediatamente qualunque discorso. Il sostantivo che forse però evoca al meglio tutta la fantascienza come genere, su tutti i media possibili, è un altro: robot.
Sicuramente le origini della moderna figura archetipica del “robot” si perdono nei meandri addirittura della mitologia ebraica (i golem, ripresi dalla letteratura e dal cinema espressionista degli inizi del secolo scorso) e vengono declinate in quella fitta serie di “weird tales” protagoniste del sottobosco culturale degli Stati Uniti degli anni ’30: si trattava di una miriade di riviste edite da appassionati, per la maggior parte ciclostilate e di livello amatoriale, che pubblicavano storie horror, protofantascientifiche o fantastiche, ovvero tutto quello che il bravo e serio borghese americano considerava “weird” (ing: strano, misterioso, fuori dall’ordinario). Quello che il bravo e serio borghese americano dell’epoca invece non poteva prevedere è che queste riviste avrebbero fatto da palestra ad alcuni autori che sarebbero stati riconosciuti, in seguito, come massimi esponenti della letteratura tout court o addirittura inventori di nuovi generi. HP Lovecraft – che gettò le basi dei Miti di Cthulhu proprio scrivendo su queste rivist, e ne diresse addirittura una – e A. Huxley, giusto per buttare lì due nomi a caso. Moltissimi cominciarono a scrivere di robot in questo periodo, o quantomeno di robot con le caratteristiche alle quali pensiamo noi oggi: la parola in sé deriva dal termine cecoslovacco “robota” (“lavoro pesante”, “servitù”) usato per la prima volta per designare un automa meccanico dal drammaturgo Karel Capek. L’evoluzione pseudotecnologica seguiva ovviamente quella tecnologica della storia mondiale per cui se i golem all’inizio erano di argilla (per poi divenire automi meccanici, elettromeccanici, positronici e chissà quali altre diavolerie), la sostanza non è cambiata col tempo: sempre di esseri umani sintetici si parla.
Arriviamo così all’inzio del 1940 quando un giovane autore di origine russa, un certo Isaac Asimov, getta le basi della sua letteratura e della sua idea del robot con una serie di racconti pubblicati a puntate – guarda caso, su una delle più note “riviste weird” dell’epoca dedicata alla fantascienza: “Astounding Science Fiction”. Nei suoi cicli di romanzi (Il ciclo dei Robot, dell’Impero, delle Fondazioni), in realtà un unico maestoso affresco sociologico e storico sulla nascita, il fulgore, la decadenza e la rinascita di un immenso Impero Galattico, l’umanità viene accompagnata fianco a fianco da una delle invenzioni cardine dell’universo asimoviano: il robot positronico.
I robot si evolvono nell’arco di tutta la narrativa di Zio Isaac, ma conservano due elementi chiave che li differenziano da tutti i robot comparsi fino a quel momento e che influenzeranno volenti o nolenti tutti i robot degli immaginari successivi (anche i meno apparentemente asimoviani): il cervello positronico e le Leggi della Robotica. Tutti i robot di Asimov, dai più rudimentali lavoratori ai modelli più sofisticati, presentano sempre queste due caratteristiche.
Il cervello positronico, benché costituito da materiali superconduttori nei quali non passa più un flusso elettrico (di elettroni), ma della sua speculare antiparticella (il positrone), garantisce architettura, processi cognitivi e di apprendimento quasi uguali al cervello umano. L’unico aspetto che il cervello positronico non riesce ad emulare, per quanto sofisticato, è la sottigliezza e l’inafferrabilità delle differenze di potenziale che generano l’emotività negli esseri viventi. Per il resto, un robot positronico impara da solo e prende decisioni in (relativa, vedremo più avanti) autonomia: alcuni sono androidi, ovvero robot con sembianze umane, sintopelle, sintopeli e così via, fino ad essere virtualmente indistinguibili da un essere umano. Esseri umani magari un po’ freddi e distaccati, ma esseri umani. Come è possibile allora che un robot positronico continui ad essere una proprietà di qualcun altro e non un organismo senziente autonomo, artificiale per carità, ma pur sempre autonomo? Ecco la trovata geniale di Asimov: il libero arbitrio del robot positronico è pesantemente limitato dalle celeberrime Tre Leggi della Robotica. Esse sono in realtà degli accorgimenti costruttivi intrinseci del cervello positronico, fatte in modo che il robot non possa ignorarle. O, se lo facesse per qualche assurdo motivo, esse innescherebbero delle differenze di potenziale interne talmente distruttive da disarticolare le funzioni primarie del robot e, al limite, portarlo alla disattivazione completa, cioè alla morte.
Eccole qua tradotte in linguaggio umano:
1- Un robot non può danneggiare un essere umano o permettere, tramite la sua inazione, che un essere umano riceva danno. (Tradotto: un robot non può mai uccidere o danneggiare un essere umano. Di più, un robot è obbligato a salvare un essere umano in pericolo immediato. Ecco perché un robot positronico non può essere usato per scopi militari, e perché molti robot che non riescono a intervenire in tempo per evitare incidenti gravi si disattivano: per non essere riusciti a soddisfare la prima legge. Un robot tuttavia deve impedire ad un essere umano, senza danneggiarlo, di far male ad un altro essere umano.)
2- Un robot deve sempre obbedire agli ordini di un essere umano, a meno che ciò non sia in contrasto con la prima legge. (Ovvero, un robot deve fare tutto quello che gli si dice, ma non gli si può chiedere di uccidere o danneggiare un altro essere umano. O meglio, glielo si può chiedere ma il robot non eseguirà, dato che la prima legge prevale sulla seconda.)
3-Un robot deve proteggere la propria esistenza, a meno che ciò non sia in contrasto con la prima o la seconda legge. (Ovvero, un robot si sacrificherà sempre per salvare un essere umano. È quindi possibile ordinare a un robot di autodistruggersi e quello eseguirebbe senza battere ciglio (al limite i modelli più sofisticati chiederebbero perché prima di eseguire comunque), ma sarebbe l’equivalente di prendere a bottigliate la propria fuoriserie o di danneggiare una proprietà altrui nel caso il robot non fosse nostro.)
Queste due semplici caratteristiche si riflettono sulla maggior parte dei robot dell’immaginario collettivo degli ultimi sessant’anni. Vediamo tre esempi in ambito diverso: uno letterario, uscito direttamente dalla penna di Asimov, uno cinematografico ed un altro fumettistico.
R. Daneel Olivaw
Il papà di tutti i robot letterari e non solo appare per la prima volta nel primo romanzo asimoviano del Ciclo dei Robot, “Abissi d’Acciaio”. È probabilmente il più sofisticato androide mai costruito nella storia. Esteriormente indistinguibile da un normale essere umano, bello, alto, dai tratti regolari, Daneel è un robot positronico completamente sottoposto alle Tre Leggi. Viene usato dalla polizia di una New York futuristica come investigatore per le sue superiori capacità deduttive e per la sua capacità di passare per un normale poliziotto. Insieme col suo collega umano Elijah Baley, diverranno una delle coppie investigative più famose della letteratura, costituendo l’elemento logico, deduttivo ed imperturbabile (alla Sherlock Holmes), mentre il taciturno ed introverso collega umano rappresenterà più il tipo dell’investigatore da noir della “scuola dei duri”, alla Sam Spade o alla Philip Marlowe. Dopo un’iniziale diffidenza (l’uomo sostituito dalla macchina più efficiente), Baley si renderà conto della lealtà del suo nuovo collega di fronte alle volubilità umane, e i due svilupperanno una certa stima reciproca, anche se spesso l’umano si sorprenderà a pensare che il collega in realtà non abbia più diritti civili del suo tostapane. Daneel attraverserà tutti cicli asimoviani nell’arco narrativo lungo millenni, apparendo di volta in volta come attore o semplice testimone degli eventi, facendosi via via più sofisticato e sviluppando capacità psioniche. La sua capacità di evolvere autonomamente lo porterà addirittura ad auto elaborare la cosiddetta Legge Zero, la legge di gerarchia più alta, mai pensata dai robotisti umani, che recita così:
0- Un robot non può danneggiare l’umanità o permettere, tramite la sua inazione, che l’umanità riceva danno.
e di conseguenza la prima legge si modifica così:
1- Un robot non può danneggiare un essere umano o permettere, tramite la sua inazione, che un essere umano riceva danno, a meno che ciò non contrasti con la legge zero. (Cioè, un robot può uccidere un essere umano che sta per scatenare una guerra che costerà milioni di morti)
Dopo questa scoperta, Daneel diventerà il deus ex machina che tirerà le fila della Storia galattica, proteggendo l’umanità da se stessa. A 22 anni dalla morte di Asimov, Daneel rimane uno dei personaggi più significativi della fantascienza di ogni tempo; c’è qualcosa di R. Daneel in tutti i robot venuti dopo di lui.
Quale migliore esempio dell’eredità di R. Daneel dell’androide di Star Trek, comparso nell’episodio pilota della serie The Next Generation “Incontro a Farpoint” del 1987? Gene Roddenberry, papà di Star Trek, non fece mai mistero di essersi ispirato a R. Daneel per il personaggio di Data. Interpretato da Brent Spiner e doppiato in Italia da Marco Mete, il tenente comandante Data è il secondo ufficiale dell’Enterprise-D. È a tutti gli effetti un robot positronico, il primo della storia (anzi, il secondo, considerando suo fratello Lore), progettato e costruito dal Dottor Soong e recuperato da una nave federale dopo che il laboratorio di Soong era stato attaccato da una malvagia entità aliena. Data però non è sottoposto alle Tre Leggi: a volte è costretto ad uccidere (in fondo è pur sempre un militare) ed è quindi dotato di libero arbitrio. È invece dotato di subroutine etiche, cioè di programmi software che lo aiutano a distinguere cosa sia bene e cosa sia male. Data passa, proprio in virtù del suo libero arbitrio, da proprietà della Flotta Stellare a status di creatura artificiale senziente con annessi diritti civili in un memorabile episodio della seconda stagione, “La misura di un uomo”. La sua assenza di emotività (che cercherà di sopperire installando con esiti catastrofici un chip emozionale), e la sua volontà di evoluzione e di comprensione degli esseri umani, con esiti a volte teneri, a volte buffi, a volte emozionanti, lo hanno fatto entrare nell’Olimpo dei personaggi più amati dai Trekkers: d’altronde anche lui, a modo suo, confessò agli altri ufficiali dell’Enterprise di essersi loro affezionato, rivelando come “i suoi percorsi positronici si fossero abituati alla loro presenza”.
Ultima citazione, tutta nostrana, per l’androide dell’Agenzia Alfa del fumetto Nathan Never edito da Bonelli. Appare per la prima volta sull’albo 37 della serie, viene acquistato da Nathan Never e, dopo che l’informatico dell’Agenzia, Sigmund Baginov, gli toglie la restrizione delle Tre Leggi (cosa impossibile nell’universo asimoviano), egli può sviluppare personalità e libero arbitrio. Il ciuffo bianco di capelli di Link è un omaggio a Data nell’episodio TNG “All Good Things”.
Perché i robot (e i robot positronici in particolare) sono entrati così prepotentemente nella nostra immaginazione, tanto da associarli più di ogni altra cosa alla fantascienza? Forse la chiave di tutto ce la fornisce ancora una volta Isaac Asimov: “Perché i robot ci affascinano e spaventano a tal punto? Credo sia perché rappresentano uno specchio di ciò che potremmo essere; creature senza egoismi, invidie, personalismi, ambizioni deleterie: senza, cioè, tutto ciò che ci rende umani e fa progredire la Storia.”
– Luca Tersigni –