Concludiamo l’appuntamento dei fantasy manga ispirati alla serie videoludica di Dragon Quest, presentandovi il poco conosciuto ma bellissimo L’Emblema di Roto!
Dopo aver portato alla conoscenza dei più, in questo articolo, lo shonen manga Dai – La Grande Avventura, giunto in Italia anche sugli schermi televisivi con l’orripilante traduzione di I Cavalieri del Drago, il nostro viaggio nella commistione nipponica di fantasy, videogiochi e manga ci porta a presentarvi l’opera scritta da Chiaki Kawamata e Junjii Koyanagi e disegnata da Kamui Fujiwara, senza dimenticare l’occasionale incursione del già citato Toriyama, l’autore di Dragon Ball e Dottor Slump & Arale, a cui si deve il design di molti mostri e creature presentate all’interno dell’opera.
Come vuole il marchio Dragon Quest, questo manga è ispirato alla serie videoludica di cui già abbiamo parlato in questa sede, una di quelle più longeve di sempre. Ciò premesso, saltiamo tutte le presentazioni del caso e andiamo subito al dunque.
L’Emblema di Roto (Retsuden: Roto no Monsho) è un manga fortemente legato (molto più del già citato Dai) all’universo di Dragon Quest, e per la precisione si colloca dopo il III capitolo della saga videoludica, presentandoci le avventure di Arus, discendente di quell’Arel Roto che chi ha giocato a DQ III di certo ben conosce: Arel Roto ha sconfitto il Re Magico Zooma grazie all’aiuto dei tre sacri guerrieri che lo accompagnavano, denominati Kenou (il Re della Spada, il Re delle Arti Marziali ed il Re della Conoscenza) ma, supponendo che un giorno il male sarebbe tornato, scambia con i tre sacri guerrieri la promessa di rincontrarsi, foss’anche dopo secoli, per sconfiggere il male nuovamente attraverso i loro eredi; i Kenou tornano nelle loro patrie per prepararsi al giorno in cui il male fosse tornato, mentre Arel si dedica al proprio regno ed ai suoi tre discendenti. Passano così gli anni. Arus, discendente dal figlio mediano di Arel, è un giovane principe la cui vita viene messa in pericolo fin da quando è in fasce: il crudele Re Drago, seguace di Imajin – un essere malvagio semidivino subentrato a Zooma –, riesce ad infiltrare un proprio seguace a corte al posto del sovrano: questi tenta di imporre il nome maledetto di Jagan al principino appena nato, in modo che l’energia malefica confluisca in lui e soffochi la nobiltà del sangue dei Roto, così che la discendenza venga spezzata. Ovviamente, questo non accade e il bambino, chiamato Arus da una madre oramai morente, riesce a fuggire assieme al chierico Talkin (nome dato in omaggio al prof. Tolkien) e alla figlia del capitano della guardia reale, Lunaphrea.
Durante la fuga, gli esuli incontreranno alcuni alleati che si prenderanno cura dei tre e li condurranno in un luogo sicuro dove Arus potrà crescere, apprendere l’arte della spada e della magia, per sfidare il Re Drago e riconquistare il regno di Kaamen, oramai perduto: verrà sì aiutato da Talkin, Lunaphrea e da altri alleati, tra cui Tiee, una pixie, e Kira, il suo compagno di scorribande e destinato a diventare uno spadaccino di tutto rispetto, ma è anche vero che molti pericoli attenderanno il giovane principe, non ultimo il suo retaggio. Arel Roto ebbe, come si diceva, tre discendenti e costoro altri tre: così, il discendente del primo figlio dei Roto subisce il destino che Arus ha evitato per un soffio, divenendo il Re Magico Jagan, recando così lo stesso nome maledetto che Arus avrebbe dovuto ricevere e, così, diventa succube di Imajin ed un suo fervido sostenitore, rinnegando il destino dei Roto e la loro missione di estirpare il male. Sarà quindi il solo Arus a farsi carico di questo importante retaggio, adempiendo anche alla promessa che un giorno di tanto tempo prima Arel Roto aveva scambiato con i Sacri Guerrieri che lo accompagnavano.
Questa è, molto in sintesi, la trama ordinata in maniera cronologica dei primi albi de L’Emblema di Roto, un’opera appassionante e ben disegnata, curata con attenzione e con una particolare dedizione all’intreccio della trama, con frequenti flashback che permettono di svelare il passato del prode Roto e di comprendere quale sarà lo sviluppo della storia stessa.
In primis, dell’opera colpiscono per l’appunto i disegni, molto superiori a quelli di Dragon Quest – Dai: Fujiwara ha davvero creato dei personaggi che, sebbene a tratti un po’ spigolosi, rappresentano perfettamente la vasta gamma di emozioni umane e riportando su carta movimenti repentini, attacchi fulminei, incantesimi potenti; a questo proposito, urge precisare che gli incantesimi sono sempre recitati con una parola particolare che però potrebbe non dire nulla a coloro che non hanno familiarità con la saga di Dragon Quest, dato che mancano le spiegazioni o schede descrittive che chiariscano, per esempio, che Mera è il più elementare degli incantesimi che hanno a che fare col fuoco, mentre Merazoma è la formula più potente per generare un torrente di fiamme, cosa che rende imprescindibile la conoscenza del manga Dragon Quest – Dai, come già specificato nella recensione al manga in oggetto.
La trama in sé è ricca di colpi di scena, dato che ci sono moltissime cose che vengono svelate anche nelle ultime pagine del manga: in generale l’opera si conclude con una sorta di piacevolezza agrodolce che è permeata anche da una leggera vena di malinconia, che però riesce a reggere perfettamente il ritmo e a lasciare soddisfatti i lettori che pure avrebbero voluto non distaccarsi da questo mondo appassionante. Le vicende di Arus e soci divengono ben presto realistiche, perché il discendente dei Roto protagonista di quest’opera è sì un eroe, ma anche un ragazzino, e come tale fallibile: per quanto dunque destinato a grandi cose, non è ancora abituato al dolore del mondo, ad essere persino temuto o odiato dai propri simili (un esempio è dato dalla circostanza in cui un’armata tiene in scacco il villaggio dove Arus si è rifugiato con la minaccia di ammazzare tutti gli abitanti a meno che egli non si consegni), ed è un giovane eroe che si confronta anche con sentimenti poco onorevoli, come la paura, il senso di inadeguatezza, la certezza di non essere degno successore di un così grande eroe com’era Arel.
Se vogliamo, è un po’ la metafora della crescita, in cui un bambino si sviluppa col mito del padre, senza che però questi possa proteggerlo dalle reali esperienze di vita che potranno ferirlo ed indurlo a mettere in discussione tutto ciò che ha appreso: un conto è crescere per diventare “da grande” un eroe, altra cosa è vivere le prove che portano a quella maturazione e a quell’obbiettivo, un conto è sapere cosa vuoi diventare (o credere di saperlo), altro è vivere sulla tua pelle le conseguenze delle tue scelte.
Una cosa degna di nota è che in questo manga (da cui è stato ricavato un solo episodio per il circuito televisivo, con ottimi disegni che ricalca grossomodo metà del primo tankobon e che trovate in italiano) le citazioni sono parecchie: si parla dell’impero perduto di Muu, del drago Yamata no orochi, degli Hobbit (si, degli Hobbit), e di molte altre cose che potranno stuzzicare la curiosità nostrana.
Tutti i personaggi hanno molto fascino e sarà facile affezionarsi ad essi sentendoli come amici che ci accompagnano per 21 volumi, al punto di provarne anche una sorta di senso di mancanza quando si comprende che le avventure di Arus, Kira, Yao, Poron e di tutti gli altri stiano giungendo alla fine: è un manga maturo, con tematiche mature, come la morte, il senso del dovere, la ineluttabilità del destino, la casualità degli eventi che portano anche a drammi personali.
Se c’è solo una pecca che si può imputare a quest’opera è il fatto che alle volte si abbia la sensazione che si parli di eventi non ben chiari o non sufficientemente approfonditi, oppure che ci si sia distratti per qualche attimo e che si sia perso il filo tra le pagine.
In realtà, questi apparenti momenti di incertezza della trama dipendono dal fatto che all’interno del manga ci sono frequenti rimandi a vicende che sono ben familiari a chi si è cimentato con i videogiochi della saga e le vicende di Arel in Dragon Quest: e c’è da sottolineare che la storia si può seguire ed è godibile senza sforzi o senza chissà quale fatica, con la certezza di confrontarsi con contenuti parecchio originali.
Cercando in rete, tra le altre cose, è facile imbattersi in poche recensioni (rispetto ad altri manga, per lo meno), ma particolarmente positive se non addirittura esaltanti, che quindi possono confermare quanto di buono è stato espresso in questo articolo.
Dragon Quest: L’Emblema di Roto è un fantasy poco “supereroistico” e molto realistico: la crescita personale non avviene per colpi di scena o per chissà quale potere celato (salvo per un solo personaggio) ma viene raggiunta attraverso addestramento, sangue e sudore. Non vi resta che procurarvi i numeri di questo manga, ed immergervi nella lettura!
– Leo d’Amato –