Avviamoci alla conclusione degli approfondimenti sui rapporti razziali, dedicandoci al mondo dei Forgotten Realms! E partiamo col botto con Drizzt do’Urden!
Volevamo stupirvi con gli effetti speciali e, stavolta, abbiamo voluto fare il colpaccio. Parliamo di Drizzt do’Urden, il famoso elfo scuro il cui vero nome, Drizzt Daermon N’a’shezbaernon mette alla prova da decenni la funzione copia/incolla di Word.
Dopo Raistlin Majere, ecco la trattazione di un altro immenso pezzo da novanta.
Drizzt il drow (dall’elfico dhaeraow, “traditori”).
Parliamo dunque dell’Elfo Scuro per eccellenza, colui che rappresenta una mosca bianca presso la sua società o un’eccezione nel suo mondo, nei quali tutti i drow sono malvagi e sadici, arrivisti e crudeli, e dopo la cui apparizione nel 1988 ne Le Lande di Ghiaccio, grazie alla penna di R.A. Salvatore, i Dungeon Master sono stati costretti a sorbirsi decine e decine di eccezioni di altri elfi scuri che rigettavano le proprie cupe origini a favore di un cammino più benevolo e puro (quasi sempre, rigorosamente di allineamento Caotico Buono).
Chiusa questa introduzione un po’ leggera e scherzosa – ma neanche tanto – iniziamo a parlare del personaggio che, probabilmente, in molti conosceranno: dunque, costoro ci perdoneranno se faremo un piccolo sunto di chi sia Drizzt e cosa abbia rappresentato e ancora rappresenti, sebbene oggi in una forma un tantino differente.
Correva l’anno 1988 ed un allora giovane scrittore presentò alla TSR l’idea per una trilogia: La Trilogia delle Lande (Icewind Dale Trilogy) – composta da Le Lande di Ghiaccio (The Crystal Shard), Le Lande d’Argento (Streams of Silvers) e Le Lande di Fuoco (The Halfling’s Gem): glissiamo pure sulle traduzioni ad minchiam che all’epoca si facevano (gli imponenti e fisicamente pericolosi bugbears tradotti come folletti, tanto per dirne una, termine che non incuteva minimamente timore) ma non possiamo non dire che l’adattamento dei titoli in lingua nostrana faceva davvero a pugni con l’ABC della lingua inglese. Tipo, nemmeno io dopo aver fumato il rosmarino intinto nella trementina avrei concepito simili traduzioni (cit.).
Il giovane scrittore di cui si parlava, appena ventinovenne, era Robert Anthony Salvatore (che è il bell’uomo che vedete in alto nella foto): egli si era interessato al fantasy grazie al celebre professore di Oxford, J.R.R. Tolkien ed al suo arcinoto Il Signore Degli Anelli; Robert, pertanto, fin dal 1982 (aveva ventitré anni) aveva preso a scrivere con una certa intensità e serietà, producendo un racconto di un certo rilievo (Echoes of the Fourth Magic) ed altri racconti più o meno brevi: e fu nel 1987 che ottenne il giusto trampolino di lancio, inviando The Crystal Shard, appunto, a diverse case editrici tra le quali la TSR che era giusto alla ricerca di un nuovo scrittore/autore che andasse ad affiancare Ed Greenwood (che, diciamocelo, è una cima nel produrre moduli di gioco e ad inventare storie e personaggi, ma i romanzi li scrive abbastanza coi piedi) e colse la palla al balzo per ingaggiarlo: la stessa cosa di qualche altro scrittore nostrano, con la differenza che in QUESTO caso c’era la bravura e non solo una botta di fortuna.
Chiusa la parentesi polemica, passiamo alla genesi del personaggio.
Nel romanzo Le Lande di Ghiaccio (che esaminiamo perché il primo della serie), Salvatore presentava una storia abbastanza interessante, gestita con un intreccio estremamente piacevole (che sarebbe diventato il suo proverbiale marchio di fabbrica) ed in grado di serbare la tensione tra i vari personaggi sui quali, a rotazione, si concentrava l’attenzione dello scrittore, amalgamandone le singole vicende in un crescendo orchestrato ad arte. L’aspetto più importante, peraltro, erano i personaggi che venivano presentati, ossia Bruenor Battlehammer, un re dei nani in esilio dalla sua vera patria; Regis , un halfling dal passato molto movimentato e molto vicino alla tipica figura dell’hobbit; Cattie-brie, l’umana figlia adottiva di Bruenor ed un barbaro di nome Wulfgar, che vediamo crescere passando da un giovanissimo ed imberbe combattente fino ad un più possente, prossimo all’età adulta, guerriero. Va da sé che, essendo quasi tutte le razze qui presentate abbastanza longeve, si comprende fin da subito sia una saga generazionale, ed incentrata proprio sul confronto tra una mortalità relativamente tarda (halfling, nani e, si vedrà, gli elfi) ed una più tristemente prossima (gli umani). Se l’aspetto più importante, si diceva, erano i personaggi, va detto che IL personaggio più originale e particolare, quello meglio caratterizzato e dotato di un naturale carisma, simile a quello posseduto da “il malvagio redento”, è proprio Drizzt do’Urden, l’Elfo Scuro, che in questo caso è latore del carisma da “il membro di una razza malvagia che si affranca dal proprio oscuro retaggio anche se nessuno è disposto ad abbassare la guardia con lui”. Un elfo scuro con il cuore di un elfo di superficie e guardaboschi, si dirà più volte, un amante della foresta e di tutta una serie di principi e intenti che vengono riassunti nella fede verso Mielikki, la Dea Unicorno, la cui esistenza egli apprende da un ranger umano e cieco, Montolio Debrouchee: è una figura divina che, sulle prime, l’elfo scuro aveva rifiutato, conscio di cosa significasse, per una società, specialmodo la SUA, seguire i capricci di una divinità; ma l’uomo replicherà semplicemente dicendogli “[…] tutto ciò che ti offro è un nome”, per racchiudere quella summa di pensieri, desideri, istinti onorevoli e via stoica legata all’amore verso la natura che il drow stesso sentiva e che non riusciva ad esprimere.
Una interessante variazione sul tema, quasi che la divinità sia al servizio del cuore del mortale.
Grazie al fatto che Wulfgar viene affidato a Drizzt perché venga addestrato, Salvatore ha il perfetto escamotage per poter narrare il passato dell’elfo: appartenente ad un nobile casato decaduto, esperto guerriero ambidestro e letale nell’uso delle scimitarre , è stato cresciuto per essere, semplicemente, il migliore. Non v’è spazio per la mediocrità, per essere meno che perfetti, astuti, abili: “il mio popolo uccide senza passione”, dirà Drizzt, con sguardo profondo, verso un allora ancora inesperto Wulfgar: questi, figlio della Tribù dell’Alce, composta da feroci barbari saccheggiatori, verrà attraversato da un brivido perché al di là delle differenze di razza, il suo stesso clan si comportava in quel modo ed il confronto con l’elfo scuro inizia ad abbattere alcuni dei molti preconcetti trasmessigli dalla propria eredità umana: il diffidare della magia, ritenendola da vigliacchi e deboli, il giudicare dalle apparenze (un elfo è debole solo perché esile e sottile, un elfo scuro è per forza malvagio) o ritenersi al di sopra di ogni giudizio (si è nel giusto perché più forti dell’avversario).
“Esiste un posto all’interno di ciascuno di noi dove non ci è possibile nasconderci dalla verità, dove la virtù siede come giudice. Ammettere la verità delle nostre azioni significa presentarci davanti a quel tribunale dove il processo in sé stesso è irrilevante: bene e male sono intenti, e un intento non ha scusanti” dirà più avanti (negli altri racconti), parlando delle sue motivazioni, del tentativo di sforzarsi d’essere sempre alla ricerca delle giuste domande, di non accontentarsi mai di credere d’essere nel giusto perché nel momento in cui avesse cessato di cercare prove della propria rettitudine sarebbe diventato ciò che aveva sempre combattuto.
Drizzt esplicherà la morale che l’ha indotto ad abbandonare la sua patria con, come unica compagna, Guenhwyvar, una pantera magica evocabile attraverso la statuetta d’onice che la raffigura, la quale, egli ricorderà, per molti anni è stata l’unica presenza che fosse in grado di ascoltarlo, di capirne i tormenti, apprezzarne la scelta di vivere come un eremita, in totale solitudine, allorché l’elfo scuro scelse di ritirarsi nel Buio Profondo, attingendo al suo io più primordiale (egli lo chiamerà Il Cacciatore), una sorta di personalità violenta e astuta, abile nella sopravvivenza come il “solito Drizzt” non avrebbe potuto. Una sorta di Ira Barbarica, molto più intensa e profonda.
È Guenhwyvar , in qualche modo, il silente confronto con la realtà per l’elfo scuro, una amica di cui molto si dirà ancora nel prossimo articolo.
Sarà Drizzt a costituire la cartina tornasole delle azioni dei suoi amici, una sorta di specchio deformante della realtà di tutti i giorni, in cui si confrontano coloro che sono sempre ritenuti “buoni”, ossia le razze civilizzate, rispetto ai “mostri” , ai quali gli elfi scuri appartengono, per definizione morale e “razziale”: è semmai curioso verificare come e quanto in questo caso sia il diverso, il parìa, l’esule, ad essere più nobile dei cosiddetti buoni, che a differenza sua non debbono faticare per trovare il proprio posto nel mondo, non debbono lavorare su sé stessi oltre un certo minimo, non debbono nemmeno giustificare come fa Drizzt il suo stesso essere in vita, il suo stesso respirare, il suo esistere come qualcosa di poco più di una sorta di scherzo della natura.
E’ la rivincita del diverso, proprio quando egli sembra destinato a non venire accettato da alcuno, a non trovare nessun posto nel vasto mondo, a non poter vivere una vita normale, foss’anche di un avventuriero, ma libero di viaggiare e vagare senza preoccuparsi che un fattore spaventato o un gruppo di soldati inferociti lo assaltino di sorpresa per paura di ciò che lui rappresenta.
Va pur detto, per spezzare la canonica lancia, che Drizzt rappresenta DAVVERO l’eccezione: specie nella logica di Dungeons & Dragons, i buoni sono buoni, i malvagi sono malvagi. E gli elfi scuri, i drow, sono davvero la quintessenza del male puro, perché nemmeno fine a sé stesso- molte volte, non sempre- e rivolto ad uno scopo più vasto, quello di primeggiare gli uni sugli altri e a discapito di chiunque altro, razza, potere o sesso, che essi definiscono comunemente iblith, ossia “escremento”, riferendosi a qualunque non-drow. Una sinistra idea supremazia della razza, che affronteremo nel prossimo speciale sulla figura di Drizzt do’Urden, che qui abbiamo solo iniziato ad abbozzare.
Il successo di The Crystal Shard e della trilogia di cui faceva parte, spinse Salvatore a pubblicare successivamente una nuova trilogia, che questa volta narrava le avventure di Drizzt, dalla nascita fino all’esilio nel Buio Profondo ed alla successiva scelta di vivere in Superficie, pur disprezzato da chiunque, ma libero – o così sperava- dal proprio retaggio.
– Leo d’Amato –