Concludiamo l’approfondimento che abbiamo iniziato la scorsa settimana su Drizzt do’Urden!
Nel corso del precedente articolo (che, guarda la combinazione, potete leggere QUI) abbiamo iniziato a delineare la figura del celebre elfo scuro Drizzt do’Urden, un personaggio che ha attraversato fasi diverse, mantenendosi sempre su ottimi livelli senza conoscere mai cadute o momenti di noia, nei quali fosse lecito chiedersi se non si fosse narrato già tutto il possibile circa questo personaggio e non fosse, forse, il caso di cambiare passando ad altro.
Ma, dato che di solito a questi dubbi esistenziali si risponde con una antica parola arcana, ossia “$$$$oldi”, ecco che Drizzt continua a far parlare di sé per anni, da venticinque anni, evolvendosi pur restando sé stesso, abbattendo continuamente nemici, affrontando guerre, salvando amici, venendo salvato dagli amici, combattendo i propri demoni interiori e fungendo quasi da figura mitologica, attraverso la quale affrancarsi dalle colpe e nobilitandosi.
E volete saperla una cosa?
Meno male.
Il panorama fantasy di oggi è scevro di figure imponenti, non tanto sotto il profilo fisico , ma sotto quello psicologico e morale, eroi che si sforzano di essere anche solo “normali”, alle volte, persone che suggono la vita in ogni dettaglio, che in qualche modo costituiscono un importante modello comportamentale ed etico credibile: Drizzt è un eroe che non si sofferma mai su sé stesso, è un personaggio che ha visto su di sé lo scorrere degli anni, ha perduto amici e amori, li ha ritrovati, ha ucciso per vendetta, rabbia ed odio, ha vendicato ergendosi a modello di giustizia i propri alleati, ha messo continuamente alla prova sé stesso.
Non è un caso che i principali momenti di pathos non siano tanto (o solo) gli scontri, oppure le vicende più “dinamiche”, ma quei momenti che, teoricamente, dovrebbero spezzare il ritmo, riuscendo invece a rafforzarlo: si tratta dei momenti in cui lo scrittore fa parlare Drizzt in prima persona, come se si raccontasse in un diario, come se mettesse su carta e non nell’acciaio delle proprie lame, il proprio cuore. Questi momenti rappresentano spesso le occasioni più alte di enfasi, un confronto diretto col personaggio, un cogliere direttamente dalla sua voce le sue impressioni, le sue speranze, le sue paure. Questi intermezzi sono preziosi perché ci ricordano che non stiamo leggendo una semplice saga fantasy, bensì stiamo confrontandoci con un personaggio vero o quantomeno verosimile, abbastanza da poterne apprezzare appieno ogni azione: Drizzt do’Urden non è un personaggio per chi cerca solo battaglie contro legioni di orchi, demoni, barbari, drow, maghi o pirati, bensì è un personaggio che deve essere capito e compreso, perché solo dopo che l’immedesimazione con lui è completa, si potrà sentire la sua rabbia, provare il suo dolore, la sua solitudine, il suo essere alle volte feroce e senza pietà alcuna salvo provare orrore per sé stesso in quelle occasioni in cui il suo alter ego, il Cacciatore, emerge.
Il Cacciatore è la personalità primordiale, l’istinto di conservazione e di sopravvivenza, che Drizzt, si diceva nel precedente articolo, crea ed abbraccia per non essere travolto dalla solitudine e dai pericoli immensi de Il Buio Profondo: sebbene alle volte si sia calcato un po’ troppo sull’aspetto dello sdoppiamento di personalità tra l’elfo scuro e questo ego destinato alla sopravvivenza, specie perché nei manuali non ce n’è traccia e la “semplice” Ira Barbarica non basta a giustificarla (una Furia degna di un Berseker Furioso? Non ci è dato saperlo), è vero anche che Drizzt teme moltissimo l’abbracciare questa natura bestiale, perché significa rigettare ogni forma di civile etica, di morale, di speranza, lasciandosi scivolare in un mondo rosso sangue in cui non v’è altro che le sue lame con cui percepire e giudicare il mondo.
Mettete la collera di Hulk in un elfo alto un metro e cinquanta scarsissimi (quindi, anche con un discreto complesso di inferiorità, aggiungiamo noi) con indosso una corazza di mithrall, una camicia incantata per ridurre i danni, una coppia di cavigliere della velocità, un arco le cui frecce composte di pura forza sono infinite, ed una coppia di scimitarre che egli sappia mulinare con abilità sorprendente in un turbine di ambidestrica morte (oggi insistiamo con i neologismi).
Si, siete fottuti.
Scherzi a parte, è altrettanto evidente che il personaggio conosce una voluta contraddizione con l’altra creatura con la quale vive, si potrebbe dire, in simbiotico legame: Guenhwyvar, la pantera incantata.
Non è un caso, probabilmente, il fatto che alle volte, specie quando l’elfo abbraccia il Cacciatore, sia la magica compagna di Drizzt ad essere la creatura “umana” tra i due, la creatura che riesce ancora a giudicare, persino a criticare con le proprie azioni il fare del drow (in una occasione, la pantera arriverà a scomparire volontariamente e tornare sul proprio Piano per far capire all’elfo la pericolosa china su cui stava muovendosi e che ella disapprovava le sue azioni): il fatto un essere senziente e dotato di morale venga giudicato da un “animale” anche se magico e provvisto di intelligenza è senza dubbio significativo come insegnamento. E’ la pantera, comunque, ad occuparsi del suo amico (più che padrone), aiutandolo in battaglia, coordinandosi con lui negli scontri, agevolandone le sortite, attirando gli avversari in trappola, combattendo al suo fianco e proteggendolo: Guenhwyvar è una figura importante, una sorta di estensione della morale di Drizzt, una compagna che integra perfettamente il drow accompagnandolo nelle sue battaglie fisiche o, come si è visto, morali.
E’ una effettiva contraddizione, special modo se rapportata alla realtà di un assassino, la nemesi di Drizzt, Artemis Entreri, che pur essendo un umano, ciò che Drizzt non potrà mai essere, ha scelto di abbracciare in toto quelle qualità che lo nobiliterebbero appieno presso gli elfi scuri: freddo, pragmatico, letale, privo di passione nell’uccidere.
Sul rapporto tra Drizzt e Entreri torneremo, un giorno.
Ma Drizzt do’Urden è un elfo scuro: è una creatura destinata alla lunga vita, il personaggio che, in qualche modo, si sa traghetta l’Universo di Forgotten Realm nel passaggio dalla III alla IV edizione ed a quella tremenda, cataclismica vicenda, della Piaga Magica/Spellplague.
Di questo, però, sarebbe meglio parlare in tutt’altra sede.
La longevità dell’elfo si rivela essere anche la sua più grande maledizione: è la paura di legarsi a razze meno durature della sua che, ad un certo punto, prende ad affliggerlo e ad impedirgli di vivere appieno la propria vita, godendosi quello che essa gli regala.
L’elfo scuro aveva sempre, difatti, provato qualcosa per la figlia adottiva del nano Bruenor Battlehammer, l’umana Cattie-brie: una brava combattente da lui stesso addestrata nel corso degli anni e delle battaglie, nonché una arciere letale grazie a Taumaril, l’Arco Spezzacuori: è però l’ineluttabilità di una morte che comunque è annunciata, “che sia per spada o lento sfacelo del tempo”, per citare Elrond rivolto ad Arwen a proposito dell’amore tra lei ed Aragorn, a frenare l’elfo, per paura del dolore. In questo caso, tuttavia, sebbene Drizzt non sia destinato all’immortalità (gli elfi dell’Universo di D&D sopravvivono nell’ordine dei secoli ed i drow di solito non più di sette od otto, con l’unica eccezione dell’allora Matrona Madre dei Baenre): inoltre, Cattie-brie era anche legata sentimentalmente a Wulfgar, l’altro umano adottato da Bruenor, per quanto il loro rapporto fosse inizialmente quello di una cotta adolescenziale –diciamocelo, se sei una ragazza circondata da nani da mattina a sera, e le uniche alternative sono o un elfo scuro alto quanto te o un barbaro biondo e muscoloso, aitante e dagli occhi azzurri, non è che ci stai proprio a pensare, se hai quattordici, quindici anni. Il canonico triangolo alla Wolverine- Jean Grey- Ciclope torna anche in questo caso, con le speculazioni dei fan per anni su chi Cattie-brie avrebbe scelto e come si sarebbe riusciti a non fare del male all’altro pretendente sconfitto: ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Ciò che invece conta, in questo caso, è proprio il fatto che venga insegnata, attraverso Drizzt, l’importanza del presente, che noi uomini e donne comuni abbiamo dimenticato, vivendo così tanto nel futuro che quello che ci accade attorno a malapena ci scalfisce o, al peggio, lo percepiamo come un fastidio sullo sfondo, una sorta di noioso ronzio: “la vita è quello che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti”, diceva John Lennon. Ma curiosamente Salvatore assegna a due membri di razze longeve il compito di “educare” e far maturare ancora l’elfo scuro, donandogli un’ulteriore forma di consapevolezza, quella dello scorrere del tempo. Il primo è proprio Bruenor che, in uno dei rari momenti di tranquillità, in taverna, farà presente che il fatto di avere figli adottivi (i quali a loro volta si sposeranno e genereranno altri figli) implicherà che “quella bambina invecchierà e morirà mentre io sarò ancora qui , con le mie ossa doloranti”: è un’affermazione grave, ma sincera, che l’elfo travisa e, senza accorgersene, interpreta come un modo per mettersi a nudo, accettando i propri sentimenti verso una umana “Forse è possibile che quelli fra noi che si nascondono dal dolore, non conosceranno mai la gioia che può generarlo.[…]” risponderà il drow, prima di capire che Bruenor gli stava dando in realtà non tanto la sua benedizione- tra amici di anni, sangue e battaglie,era quasi superflua – quanto un insegnamento per capire l’importanza di ciò che aveva conquistato.
Concentriamoci sulla risposta data da Drizzt poco più in alto: “il lato buono della tristezza”, per chiamarla come in un episodio di South Park. “Se sono triste per qualcosa, vuol dire che a quella cosa tenevo, che quella cosa in precedenza mi ha reso felice” dirà Butters, in uno dei momenti clou del proprio personaggio.
Fa strano accostare pensieri così profondi ad una saga fantasy, specie se poi li troviamo anche in un cartone dissacrante come South Park, eppure è proprio questa la cosa che dovrebbe meravigliarci: che ci stupiamo di trovarli in questi prodotti, in questi format, e invece li cerchiamo in romanzi di terz’ordine commercialissimi oppure in orridi reality show e non sappiamo riconoscere la profondità di un messaggio contenuto in libri con creature fantastiche od in un cartone anche a tratti volgare (ma, dopo aver sopportato Il Grande Fratello, davvero possiamo bollare South Park come programma volgare e diseducativo?) .
Un minuto di silenzio per le cellule celebrarli morte accostandoci al pattume di cui sopra.
Oltre all’aspetto prettamente temporale, c’è anche quello razziale: Drizzt è un elfo scuro buono, in un mondo che non accetta facilmente – e tollera a malapena – lui stesso; la sua progenie, se fosse nata, che sorte avrebbe conosciuto? E’ Innovidil, un’elfa della luna da poco privata del suo compagno di vita, Tarathiel, a fornire all’elfo scuro una qualche risposta, nel periodo in cui i due hanno fatto coppia sterminando orchi e combattendo l’avanzata delle truppe di Obould: “essere un elfo significa inneggiare alla vita. Essere un elfo significa godersi ogni singolo momento, un’alba od un tramonto, gli inaspettati e brevi episodi di un amore o di un’avventura, il calore di un’amicizia. Significa, soprattutto, non sentirsi mai bloccati dalle proprie paure nei confronti di un futuro che nessuno è in grado di prevedere[…]” questo è ciò che capirà Drizzt dagli insegnamenti dell’elfa: un’elfa che, pur nel dolore di una perdita, riuscirà ad evocare per l’elfo i suoi ricordi, le proprie esperienze di vita, che l’avevano vista legarsi anche ad umani, persino molto vecchi.
Drizzt è, fuori dal mulinare delle sue armi, fuori dalla corazza o dai suoi poteri ancestrali di drow, un elfo complesso e vitale, una creatura che inneggia alla vita e la sente fluire: è una persona, questa è la cosa più importante, che non dimentica il proprio posto, eppure lo cerca, continuando a procurarsi prove concrete della propria rettitudine, di una morale trasmessagli dai geni paterni, da Zaknafein, l’unico altro drow che sentiva disgusto per le proprie azioni, per l’uccidere senza uno scopo, per educare giovani guerrieri ad essere dei “perfetti drow”, quando esserlo significava essere, semplicemente, il miglior guerriero assassino di sempre.
La morale di Drizzt è la morale di chi affronta tutto, la sua stessa società (si diceva, QUI, la rivincita del diverso) per fare la cosa giusta, di chi vive persino in solitudine, se necessario, per sopravvivere almeno a sé stesso, per non essere ciò che il mondo vorrebbe a tutti i costi egli fosse, perché è “poco confortante”, troppo alieno alla mentalità di tutti i giorni, trovare chi è così sconcertantemente fuori dall’ordinario, in grado di costringere a fare i conti col proprio essere.
Perché l’importanza della figura di Drizzt do’Urden è data dal costringerci a ricercare il nostro posto, sempre, restando fedeli al nostro cuore.
– Leo d’Amato –