Proseguiamo l’analisi delle relazioni interrazziali tra le saghe fantasy, occupandoci di Dragonlance e della figura umana e tragica di Sturm Brightblade.
Abbiamo concluso con i due articoli precedenti (uno particolarmente incentrato su Gimli il Nano, mentre l’altro sui principali personaggi che compongono il Silmarillion) un esame dell’universo tolkieniano inerente le razze fantasy, i loro rapporti, e gli episodi più significativi di amicizia o inimicizia intercorsi. Ma, come preannunciato, non è nostra intenzione limitarci a questo unico, per quanto maestoso e significativo, universo. Altre saghe fantasy hanno in qualche modo solleticato la nostra fantasia, ci hanno fatto sorridere, arrabbiare o finanche scendere la canonica lacrimuccia vigliacca che non ci aspettavamo di versare. Quindi, proseguendo il nostro esame, vediamo di delineare i personaggi apparsi in un’altra importante e famosa saga fantasy, un po’ caduta nel dimenticatoio per essersi evoluta sensibilmente a partire dal suo filone principale, ahimè, conclusosi molti, molti anni fa. Stiamo parlando del mondo di Krynn, le cui vicende vengono narrate nella saga DRAGONLANCE.
Si potrebbe opinare che, a differenza di Forgotten Realms, DL sia una ambientazione più semplice e lineare, in cui i rapporti interpersonali hanno peso soprattutto tra personaggi della stessa razza, e che non tutti i personaggi che sono ruotati nel corso degli anni hanno acquisito davvero un peso di rilievo nell’immaginario collettivo. In parte, ciò corrisponde al vero: la saga cui il duo Hickman-Weis ha dato vita con la trasposizione su carta delle vicende che accadevano al loro tavolo da gioco (è accaduto spesso, invero, che autori di saghe fantasy abbiano esordito dando vita a personaggi su carta che rappresentassero il proprio alter ego giocato con i propri amici, anche se ultimamente questa leggenda pare sia stata contestata – eppure ho ben in mente l’elogio della Weis all’interpretazione di un suo amico e collega del personaggio da cui sarebbe nato un certo mago della Veste Nera) è sempre stata Raistlin-centrica o, per lo meno, fortemente incentrato sui “nove viandanti” de La guerra delle Lance, ovverosia Laurana, Tanis, Raistlin, Caramon, Sturm, Tasslehoff, Flint, Goldmoon e Riverwind, anche noti come gli Eroi delle Lance. Nove avventurieri male assortiti, che richiamano però alla mente i nove viandanti de La Compagnia dell’Anello.
Un caso…?
Suvvia, anche voi, farvi queste domande scontate.
Si diceva, i romanzi del duo Weis-Hickman erano sempre stati fortemente incentrati sulle figure cardine di quei nove avventurieri che così bene venivano descritti non già nella loro forza, ma molto di più nelle loro “umane” (leggi: proprie di un mortale) debolezze. E non è un caso che, volente o nolente, quando le due trilogie più importanti si sono concluse, i due autori siano rimasti leggermente a spasso: si potrà obbiettare che ad essi la TSR chiuse le porte in faccia perché non credeva in altri progetti dei due, una volta che i loro personaggi avevano incontrato il canonico “lieto fine” o quel che si poteva far passare per tale, e che fu questo a spingere i due scrittori/autori dei moduli a rispondere alla TSR un “ciucciatevi il calzino” e proporsi ad un’altra casa, la Bantam Books, pubblicando il Ciclo di Darksword, che pur non essendo una macchina sforna soldi come Dragonlance, comunque portò molta gioia alla casa editrice. Fu solo nel ’95 che la TSR capì di aver fatto un leggerissimo errore di calcolo nel non dare fiducia ai due scrittori, e li richiamò per proseguire il progetto Dragonlance (all’epoca del lancio del prodotto, parliamo del 1980 circa, il nome in codice era “Project Overlord”. No, davvero, giuro): col senno di poi, se si fosse fatta gli affari propri, avremmo evitato di sorbirci non tanto il primo libro della nuova saga, La Seconda Generazione, che volendo strappava anche la lacrimuccia di cui si accennava sopra per l’incontro tra Raistlin e Palin o di Usha, la ragazza umana cresciuta dagli Irda, quanto il secondo libro, malinconico ed agrodolce – anzi, più agro che dolce – de I Draghi Dell’Estate di Fuoco e tutto quello che ne è seguito (La Quinta Era, La Guerra delle Anime, Il Ciclo di Mina ed il “parto-bene-con-un-personaggio-originale-e-figo-ma-poi-mi-perdo-per-strada Ciclo di Dhamon Grimwulf), con qualche rara eccezione (la saga dei Minotauri è per lo meno interessante).
Voi direte: “perché questa premessa lunga?”
Ci ritorneremo dopo, su questo interrogativo, ma tenetelo bene a mente. Nel definire le relazioni interpersonali in un contesto fantastico come quello di Dragonlance, un fulgido esempio è rappresentato, paradossalmente, da un umano, Sturm Brightblade, aspirante cavaliere di Solamnia, rango che raggiungerà solo poco prima della propria morte. Sturm rappresenta, forse al pari delle più grandi e tragiche figure fantastiche, quella meglio delineata e dipinta, amata come solo quella di Raistlin nella stessa saga, o quella di Boromir o Aragorn ne Il Signore degli Anelli: un personaggio che a tratti poteva risultare perfino noioso per la sua ostentata voglia di ergersi sempre e comunque sopra le umane grettezze, e che comunque ti restava impresso nel cuore, strozzandoti un “ehi, ma! Che cavolo, perché…?” in gola, per una morte tragica al termine di un doloroso percorso di crescita interiore. Per tutta la vita, Sturm aveva vissuto come un aspirante cavaliere, seguendo fin dalla più tenera età Il Codice e La Misura, il codice degli antichi cavalieri, un ordine che pure a quell’epoca appariva in netto declino, perché i propri membri erano intenti più alla protezione dei propri interessi e posizione, che non ad incarnare gli ideali più alti che apparivano anacronistici, quasi, o irrealizzabili; inoltre v’era quasi un rispetto cerimoniale di tradizioni che avevano i sapore di una continuità da rispettare che era fine a sé stessa. Bisogna considerare il background culturale di Sturm, figlio di nobili solamnici chiamati all’esilio dalla loro terra e dai loro possedimenti a causa di una rivolta: solo la madre riuscì effettivamente a fuggire con il piccolo, mentre il di lei marito non diede più notizie; cresciuto quindi dalla sola madre e con poco dell’antico retaggio, a parte l’orgoglio misto alla sua educazione, il giovane Brightblade fece del suo meglio per crescere nobile d’animo in una realtà priva di agi come quella di Solace, per quanto rigido in determinati schemi mentali – come quello che vedeva il dover diffidare dei maghi, cosa messa più volte a durissima prova dal dover viaggiare assieme a Raistlin, il cui animo di certo non benevolo già era una sfida alla pazienza dell’aspirante cavaliere – e nella concezione ed ostentazione ferma di virtù, rispetto ed onestà che tante volte cozzavano con il fare fanciullesco e inarrestabile di Tasslehoff, il kender, o con quello più pratico di Tanis o Caramon, che si trattasse anche solo di poter mentire una giusta causa: una cosa intollerabile per il solamnico.
Eppure, Sturm si rivelò il più grande e nobile cavaliere proprio a causa – letteralmente – delle sue amicizie, delle prove cui si sottopose, degli scontri che ebbe e che spesso ne mitigarono preconcetti e supponenza. È solo grazie all’aver vissuto fianco a fianco di un mezz’elfo reietto come Tanis, ad un burbero e brontolone vecchio nano come Flint, ad un gioviale ed innocente Tasslehoff, ad una tentatrice sfacciata ed ardimentosa come Kitiara e persino ad un malvagio mago come Raistlin, che Sturm in qualche maniera è cresciuto, scrollandosi di dosso la supponenza dei cavalieri orgogliosi per e del proprio status; Sturm si è confrontato con tutto il male ed il bene del mondo, e si è dovuto immergere nello squallore della vita vera, reale, non al riparo di mura, servitori e castelli come altri cavalieri per titolo ma non per animo; e ha dovuto sporcare le proprie mani, il proprio io, cercando costantemente prove della propria rettitudine, che rappresentava, possiamo dirlo, la vera realizzazione di chi è giusto.
Riportiamo un passo significativo, forse uno dei più cari e profondi per coloro che amano il personaggio e che, pure, racchiude tutto ciò che era Sturm: “Per tutta la vita aveva seguito il Codice e la Misura. Il codice – Est Solarus oth Mithas – Il mio Onore è la mia Vita – si, il Codice era tutto ciò che gli rimaneva. La Misura non aveva più alcun valore. Aveva fallito. Rigida, inflessibile, la Misura aveva rinchiuso i Cavalieri in un acciaio più pesante della loro stessa armatura. I Cavalieri, si erano attaccati disperatamente alla Misura senza comprendere che era un’ancora che li trascinava verso il basso.
E io perchè sono diverso? si chiese Sturm. Ma egli conosceva la risposta ed il borbottio del nano gli faceva da contrappunto. Era diverso a causa del nano, del kender, del mezzelfo. Gli avevano insegnato a guardare il mondo con altri occhi. Occhi a mandorla, occhietti piccini e anche occhi a clessidra. I Cavalieri come Derek vedevano il mondo senza sfumature, in bianco e nero . Sturm aveva visto il mondo in tutti i suoi splendidi colori luminosi, in tutto il suo piatto grigiore “
C’è in questo riferimento tutto quanto è Sturm. Un personaggio che è destinato ad uscire presto dalle saghe, la cui presenza però permea spesso le pagine dei romanzi successivi: era un uomo, e sovente fallì; era innocente e orgogliosamente ingenuo, al punto da farsi sedurre da Kitiara e generare un figlio con lei; era fermo e risoluto, d’una nobiltà di cui un’elfa regale come Alhana Starbreeze poteva invaghirsi perdutamente; era coraggioso perché sapeva risvegliare l’altrui coraggio come in Laurana, ma anche in soldati semplici. Testardo, orgoglioso e severo. Grazie a coloro che l’hanno, con le loro imperfezioni, con il loro essere “mortali”, fatto crescere, fatto maturare l’animo, e contribuito a sviluppare un vero “io”. Non è un personaggio grandioso, non è un “oltreuomo” che apprende appieno il suo posto: piuttosto, è un uomo, un uomo che ha capito qual’è la propria fallibilità, la fallibilità di un sistema in cui pure ha creduto, e che ha inteso che forse nemmeno un esempio concreto sarebbe bastato a ridestare i suoi simili e compagni dell’Ordine dall’apatia e dalla schematicità. Eppure, è con la sua morte che riesce a dimostrare qualcosa: essere cavalieri è uno status che si acquisisce giorno dopo giorno nel proprio cuore, senza rifuggire, ma solo accettando l’altruità: pur con obiezioni, con diffidenza, con astio persino. È memorabile l’episodio in cui, vittima del Sogno di Lorac, Sturm sogna un Raistlin con indosso le vesti nere e si prepara a scagliarglisi contro “Ho sempre saputo che saremmo arrivati a questo”, dirà Sturm in quel momento, ed era una consapevolezza figlia non solo e non tanto di quella avversione radicata nei cavalieri verso la Magia – per quanto Huma Dragonbane, il più famoso cavaliere, fosse legato da amicizia sincera a Magius, uno dei più grandi maghi mai vissuti cosa che spesso sconcertava molti che lo conoscevano- quanto anche della conoscenza dell’animo di Raistlin, di cui percepiva i tratti peggiori, come livore, gelosia, brama di potere.
Eppure, alla fine “non restava altro che fidarsi”: di ciò che improvvisati compagni, un’accozzaglia male assortita d’aspiranti eroi, stavano a rappresentare per un giovane aspirante cavaliere, che sondava il mondo con un petto trafitto dalla punta di una lancia.
– Leo d’Amato –