In un mondo ormai diviso in fazioni, dove far parte di uno schieramento e lanciare pupù virtuale agli avversari sembra quasi un gioco, l’ultima stagione de Il Trono di Spade si è tuffata a bomba con la grazia del latitante George R. R. Martin. “La stagione più brutta della storia televisiva”, “talmente bella che ho il durello ancora adesso”: ovunque è un fioccare di opinioni contrastanti, soprattutto sul terreno dei personaggi e della loro gestione. Da qui è partita la nostra idea di prenderne due per volta e tracciarne un percorso lungo sette stagioni che ci aiuti ad analizzare coerenza e/o criticità evolutive.
Sarebbe troppo facile fiondarsi sui personaggi principali e sciorinare ottocento parole di lamentele sulla scelta di farci vedere il culo di Jon ma nemmeno un capezzolo di Daenerys. I preliminari sono la base dell’ammmore? Vorrà dire che lo saranno anche di questo viaggio tra le pedine del gioco del trono. Cominciamo, dunque, da Bran Stark e Samwell Tarly, i due personaggi appartenenti alla cornice narrativa di Game of Thrones con un ruolo molto più importante di quello che è stato messo in scena. Per poter fare un discorso che coinvolga entrambi basta semplicemente aspettare il tentato omicidio da parte di Jaime (che poteva contare ancora su entrambe le mani per trastullare la sorella) dalla torre di Grande Inverno. Da quel momento il piccolo sognatore di casa Stark dice addio al desiderio di diventare un cavaliere e precipita nel baratro dell’emarginazione, dove trova il buon Sam già perfettamente a suo agio. Entrambi menomati, uno nel corpo e uno nello spirito, essi non hanno nulla da dare a un mondo sull’orlo della guerra, dove tra lord e guerrieri leggendari si muovono vipere in grado di scatenare conflitti solo aprendo bocca. Ma dal momento che la Legge di Murphy non perdona, le cose vanno ovviamente peggio. Il primo apprende della morte del padre, viene tradito da Theon e scappa a nord – non esattamente alle Maldive; il secondo abbandona il desiderio di diventare un maestro, prende il nero e fa la conoscenza dei Bruti prima, e degli Estranei poi.
Il punto di contatto vero e proprio, ideato in maniera sublime da Martin tramite un incrocio di tragitti al Forte della Notte, rappresenta per certi versi l’inizio della risalita, e unisce definitivamente due personaggi così diversi. La loro è la tipica storia di affermazione, personale prima ancora che agli occhi degli altri, e avviene tramite l’uso degli elementi fiabeschi classici. Abbiamo l’antagonista a forma di Polaretto, poteri soprannaturali in un caso e particolari abilità nell’altro (riuscire a rimanere grasso anche in condizioni estreme può considerarsi tale?), e una sfilza di aiutanti pronti a sacrificarsi. Ai due protagonisti atipici non rimane altro che inseguire l’unico spiraglio che la vita ha da offrirgli, che si traduce in “Corvo Con Tre occhi” oppure “studio di tutto ciò che riguarda gli Estranei” a seconda della direzione in cui si guarda. Com’è che allora il risultato della settima stagione è di due personaggi così diversi? Semplice, il percorso non è stato uguale per entrambi. E a pensarci bene trovo veramente immotivate e immeritate le critiche lanciate al last man standing di casa Stark. Ovunque leggo di un tipo antipatico, piatto e odioso. Io ricordo a chiunque la pensi così che stiamo parlando di un bambino di sette anni o poco più, paraplegico, che ha visto morire praticamente chiunque l’abbia aiutato (a causa sua tra l’altro) e che ha scoperto di doversi accollare la visione di tutti gli eventi passati, presenti e futuri. E non stiamo parlando della Melevisione. Ah dimenticavo, il suo ceruleo nemico abbatte draghi per hobby. Dall’altra parte, invece, tanti applausi per Sam, che a quanto pare ha il pregio di aver scoperto la figa (scusate il francesismo), e la conseguente spavalderia, più tardi rispetto al resto di Westeros. A volte un po’ più di equilibrio non guasterebbe, e questo mantra potrebbe valere anche per i due soggetti in questione. Le braccia all’emotionless funzionano ancora, e anche solo un abbraccio Meera se lo meritava; così come poteva avere un po’ più di pazienza l’autodidatta Tarly, che in un paio di giorni riesce a trovare la cura per il morbo grigio ma abbandona la Cittadella per insofferenza. Ma tant’è.
Nel finale, poi, abbiamo avuto la prova che anche i personaggi soffrono della sceneggiatura tirata per i capelli. Trovo poco plausibile che Bran abbia assistito al parto di sua zia senza nemmeno vedere chi sia diventato quel pargolo in futuro, così come fa storcere il naso l’incredibile memoria di Sam che ricorda perfettamente una cosa a cui non ha nemmeno prestato attenzione. Nonostante le problematiche, però, i due sono riusciti ad affermarsi nello scacchiere di Game of Thrones proprio grazie al segreto di Pulcinella di Jon, e in tal senso non è un caso che non si senta più parlare di Messer Porcello o Bran lo Spezzato, soprattutto viste le persistenti battute sulla statura di Tyrion. Loro sanno cose di cui gli altri sono all’oscuro, è questa la loro forza. Ed è anche il motivo per cui trovano sempre più consensi le teorie Bran-Night King e Sam-Martin.
Direi che ho detto abbastanza per questo primo appuntamento. In generale trovo coerente l’evoluzione dei due personaggi nel corso del tempo, nonostante una sceneggiatura che li ha obbligati a salti mortali in queste sette puntate. Sam e Bran tirano i fili adesso, che ci piaccia oppure no.
–Andrea Camelin–
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