L’uscita del nuovo trailer di The Great Wall, pellicola di Zhang Yimou, è stata accolta da un vespaio di polemiche. Il film, un fantasy che racconta la difesa della Grande Muraglia contro un’orda di mostri da parte di unità di guerrieri d’élite cinesi, vede Matt Damon e Pedro Pascal (già Principe Oberyn Martell di Dorne in Game of Thrones) nei panni di un paio di combattenti occidentali capitati per caso dalle parti della Muraglia e desiderosi di dare una mano. Come simpatica usanza da qualche tempo a questa parte, sono arrivate puntuali come cartelle esattoriali le accuse di whitewashing, ovvero la supposta tendenza a inserire attori e personaggi bianchi e fighi (americani, insomma) in pellicole nelle quali palesemente c’entrano come la marmellata sui crauti, tanto per venire incontro alla sensibilità occidentale.
Capofila di turno (ma non unica) delle accuse è questa volta un’attrice cinese, tale Constance Wu, che ha dichiarato: “Dobbiamo smetterla di perpetuare il mito razzista secondo il quale solo un uomo bianco può salvare il mondo”. La frase si è guadagnata subito la replica piccata dello stesso Matt Damon, che si è detto sostanzialmente sorpreso per le accuse lanciate a un teaser (avrebbero potuto almeno attendere di vedere il film in sé, argomenta Damon) e per il fatto che il ruolo in questione non rientrerebbe nei canoni classici (cinematografici, letterari e financo fumettistici) dei film cappa e spada orientali, e quindi non si tratterebbe di uno scippo ai danni di un eventuale attore asiatico. Infine, l’attore statunitense ha fatto presente che forse sarebbe il caso di spostare l’attenzione da questa polemica pretestuosa al vero motivo per il quale molte pellicole presentano nel cast il grande nome hollywoodiano: un blockbuster, anche straniero, che abbia l’ambizione di sfondare negli USA non può prescindere dal divo, dal nome di richiamo.
E, visionato il trailer, per una volta viene voglia di dare ragione al buon Matt: le accuse di razzismo appaiono pretestuose. Posto che la polemica non risieda nella scelta di un attore americano (altrimenti non si comprenderebbe come mai non si verifichi questa levata di scudi ogniqualvolta un attore non veneziano interpreti Il Mercante di Venezia), e posto che la polemica non sia davvero solo un pretesto per qualche titolo sui giornali (cioè pubblicità gratis), le accuse sono abbastanza ridicole. Anzitutto in una società globalizzata e multietnica come la nostra, razzismo e paternalismo culturale sono – prima che eticamente riprovevoli – sicuramente antieconomici: basti pensare a quanti blockbuster d’azione presentano Quote Rosa, Gialle, Nere, e via di questo passo, al limite del politicamente corretto. Rispetto della multietnicità? Sì, nel senso che i soldi del biglietto non hanno colore, e ogni singolo spettatore nella multietnica ma lacerata società americana ha bisogno di potersi identificare in qualcuno. Nel caso in questione, semplicemente abbiamo a che fare con una Quota Bianca, per una volta. Per inciso, il personaggio di Matt Damon non è cinese, pare essere capitato lì un po’ per caso, e gli eroi (e le eroine, ovviamente) orientali non sembra che facciano la figura dei codardi nel filmato.
Piuttosto, per cogliere lo spunto dell’attore (due volte d’accordo con Matt Damon nello stesso articolo – inizio a preoccuparmi), la vera questione è: perché il pubblico americano ha sempre bisogno del nome di richiamo per andare al cinema? Perché ha sempre necessità dello specchietto per le allodole? E, soprattutto, siamo sicuri che ne abbia bisogno solo il pubblico USA?
–Luca Tersigni–