Dopo ben tre anni di ritardo, oggi fa il debutto nelle sale cinematografiche italiane “The Zero Theorem”, ultima fatica di Terry Gilliam, eclettico regista in grado di destreggiarsi tra film demenziali (Monty Phyton e il Sacro Graal), di azione (L’esercito delle dodici scimmie e I fratelli Grimm e l’incantevole strega) e mondi onirici (Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo). Come se la sarà cavata con questa pellicola di difficile catalogazione, sebbene molto vicina alla Sci-Fi?
Quohen Leth (Christoph Waltz) è un geniale dipendente della multinazionale Mancom con l’incarico di programmare ‘crunch entities’, entità metafisiche. In perenne attesa di una telefonata, leitmotiv dell’intero film, e preda di una costante ansia che gli impone di riferirsi a se stesso con il plurale maiestatico ‘noi’, viene selezionato dal Management (Matt Damon) per risolvere un’equazione matematica, lo Zero Theorem. L’equazione ha il solo scopo di dimostrare scientificamente, e con l’ausilio di una super intelligenza artificiale, che la vita non ha un senso. Durante questa ricerca tra il filosofico e il matematico, Quohen Leth (nome che allude al Qoelet, cioè il libro dell’Ecclesiaste nella denominazione ebraica) incapperà nell’istrionico capoufficio Joby, resterà scosso dalla sensualità provocante di Bainsley, avrà a che ridire con il pragmatico deus ex machina Management, troverà una spalla in Bob, figlio di quest’ultimo, e tenterà di sbrogliare il mistero del buco nero collegato alla telefonata in maniera altrettanto misteriosa.
Cosa hanno in comune Matrix, Johnny Mnemonic, Blade Runner, 1984, Il Nome della Rosa e l’Urlo di Edward Munch? Fino al 2013 assolutamente nulla, se non una spiccata vena filosofica con alla base riflessioni sul senso della vita. The Zero Theorem traccia una linea trasversale tra le opere citate, entrando nel verde giardino dell’esistenzialismo con la grazia di un caterpillar. Tra citazioni – volute – del capolavoro delle sorelle Wachowski (“Tu sei l’eletto”), il perenne occhio del grande fratello, l’incomprensibile angoscia di Quohen e l’altrettanto inspiegabile mondo del lavoro di questo futuro alternativo (ma cosa diavolo è un’entità virtuale metafisica!?), si ha l’impressione di assistere al dramma di un Prometeo privo di profondità. Le movenze, gli atteggiamenti, il modo di pensare del protagonista, miscelate con una buona dose di incretinimento pre geriatrico, vorrebbero rendere la produzione simile al Frankenstein drammatico di Mary Shelley. Peccato che la resa cinematografica sia più accostabile al Frankenstein Jr. di Mel Brooks, perché Quohen, sicuramente disegnato per essere il freak che si contrappone a una realtà fatta di decadenti luci, colori, e abiti molto anni ’80, alla fine non ha nulla di veramente umano, al punto da divenire una macchietta, lo stereotipo dello sfigato a ogni costo che sa di esserlo e non intende cambiare, trascinandosi giorno per giorno e negandosi ogni piacere (‘rigorosamente non mangio cibi che abbiano sapore’). Il piattume di una personalità costruita solo per portare avanti stanchi discorsi accademici sul senso della vita ha un sussulto solo con Bob (che ’chiama tutti Bob per non sprecare inutilmente i neuroni preziosi a ricordare i nomi della gente’), sua geniale antitesi.
Di Terry Gilliam ho amato la spregiudicatezza e il fascino di Brazil, capolavoro introspettivo al pari di The Addiction (Abel Ferrara, 1995) e Arancia Meccanica (Stanley Kubrick, 1971), ma proprio non ho digerito il maldestro tentativo di voler creare originalità da cliché troppo famosi per essere plasmati in qualcosa di nuovo. Manca la sensazione di stupore, la brama di esplorare il passato nebuloso del protagonista, il desiderio di vestire i panni di questo essere alla ricerca di un qualcosa che sfugge anche a lui. E non è colpa di Christoph Walz, la cui interpretazione è accettabile (anche se non è all’altezza di quella di Bastardi Senza Gloria del 2009, che gli permesso di vincere un Oscar): forse Gilliam avrebbe dovuto approfondire il concetto di Fede, lasciato come sottofondo spento dell’intera pellicola.
Pensate che Phil Stubbs, proprietario del blog cinematografico (e non solo) ‘Dreams’, chiese a Pat Rushin, scrittore del romanzo ‘The Call’ al quale è ispirato The Zero Theorem, quali fossero state le influenze che poi lo avrebbero portato a scrivere la sceneggiatura per la pellicola di Gilliam. Rushin citò, come fonti di ispirazione, il libro dell’Ecclesiaste, l’urlo dell’uomo che teme che non ci sia nulla oltre il velo, e una solitudine, una irrequietezza sedata dalla Fede in Dio: ebbene, se il film fosse stato incentrato sul disagio di un protagonista in bilico tra il credere e la paura del nulla, con la Fede come collante della sua coscienza, avrebbe avuto un’altra profondità e meritato ben altro giudizio.
– Fabrizio Palmieri –
The Zero Theorem – Recensione
Fabrizio Palmieri
- Colonna sonora azzeccata e d’atmosfera;
- Trama inconsistente;
- Scarso approfondimento dei personaggi;