Quelli di voi che, come il sottoscritto, si fanno punto d’onore di non lasciar passare troppo tempo tra una re-visione e l’altra de “Il Signore degli Anelli” probabilmente concorderanno nell’annoverare tra i suoi pregi l’essere senza età: ancora oggi, a una decina d’anni dalla sua conclusione, sorprende constatare quanto questi film siano invecchiati bene. Laddove rispetto ad altri classici il fattore nostalgia può intervenire per farci sorvolare su trame semplicistiche ed effetti ridicoli, la longevità della saga diretta da Peter Jackson risulta garantita da un’opera originale meritevole di aver dato vita a un intero genere letterario, una traduzione su pellicola capace di rendere perfettamente giustizia alla dimensione epica della stessa, un clima a livello di produzione incredibilmente positivo (ad eccezione del pericolo che Viggo Mortensen rappresenta quando gli si dà in mano una spada) che traspare in ogni singola scena, e un’attenzione a dir poco maniacale per la costruzione di costumi e scene.
Questo e altro ancora è ciò che abbiamo amato de “Il Signore degli Anelli”, e dunque ci chiediamo perché al suo posto ci ritroviamo con una quantità immorale e spropositata di green screen gratuiti, nani canterini e storie d’amore interrazziali quando guardiamo “Lo Hobbit”. Certo, dalla sua il povero Peter non aveva un granché di materie prime: una fiaba per bambini e una sceneggiatura definitiva non ancora completata a inizio riprese, senza contare il compito impossibile di vivere all’altezza della propria opus magnum. A conti fatti, ci potremmo sentire delle brutte persone a lamentarci, anziché rallegrarci di poterlo vedere senza piangere lacrime di sangue, visto quanto avrebbe potuto (e dovuto) fare pena: ma d’altro canto questo è l’Internet, dove le belle persone si sono estinte verso l’autunno del ’95, dunque anche oggi non mostreremo alcuna pietà nel confrontare quel che è stato con quello che poteva essere “Lo Hobbit” se solo Guillermo del Toro avesse avuto l’ultima parola sui ciack della seconda trilogia. In realtà, non possiamo saperlo, ma se proviamo a ricollegare tra loro i vari elementi di quanto traspirato dalla fase “del Toro”, e ci aggiungiamo un po’ di sano theory-crafting cinematografico, il quadro che ne emerge è decisamente buono. Quasi “Il Signore degli Anelli” buono.
In primo luogo, non ci sarebbe stata alcuna seconda trilogia, ma presumibilmente due film (e già questo costituisce un notevole miglioramento): prima che del Toro si allontanasse dalla produzione per alcune incomprensioni con Jackson su quali scene tagliare, gli script pare riguardassero solamente una parte 1 e una parte 2. Chiaramente si era ancora ben lontani dalla versione finale, ma ciò non aveva impedito a del Toro (che si era nel frattempo già messo al lavoro) di formulare una propria visione dell’opera che non includesse vari tentativi di filling, ben più realizzabile (almeno, realizzabile in maniera decedente), e soprattutto molto più vicina nello spirito a “Lo Hobbit” originale. Quest’ultimo, nel caso non l’abbiate letto, rappresenta di una favola abbastanza prototipica: abbiamo un eroe giovane e ingenuo trascinato da un misterioso stregone lungo un viaggio avventuroso quanto surreale, carico di magia e mistero. Qui finisco però i paragoni con “Il Signore degli Anelli”: se questo è una grandiosa allegoria di valori quali l’amicizia, il coraggio, la fede, e l’accettazione del proprio destino, “Lo Hobbit” persegue un obiettivo ben più umile, di intrattenere e stupire, inserendoci una qualche leggera morale sull’avidità.
Se da un lato è comprensibile il desiderio di rendere omaggio alla trilogia originale di Jackson (nelle parole di del Toro “è come sposare una vedova”), dall’altro è ridicolo cercare di riproporre le stesse identiche atmosfere e movimenti quando chiaramente la cornice narrativa di riferimento non lo permette (come sarebbe ridicolo, sempre parafrasando del Toro, non indulgere nei propri obblighi coniugali con la vedova di cui sopra). E laddove Jackson tuttavia era schiacciato dal peso del proprio stesso successo, del Toro sarebbe stato libero di prestare il dovuto rispetto a una pietra miliare del fantasy, andando comunque in cerca di qualcosa di più originale (e appropriato). Il suo obiettivo, parlando della fotografia, era quello un’atmosfera sopra le righe, da favola appunto, attraverso un uso più massiccio della computer grafica (che, a dispetto di quanto alcuni continuino a ululare, non è l’anticristo del buon cinema); al tempo stesso, alcuni modelli di costumi da orco da lui prodotti prima ancora di ricevere il via libera per le riprese (perché questo sembra essere il suo passatempo) ci mostrano quello stesso affetto e ricercatezza nei particolari che contraddistingue “Il Signore degli Anelli”. Alcuni bozzetti pervenutici dei primi concept art su Smaug, poi, testimoniano un modo di pensare tendenzialmente fuori dagli schemi nella progettazione delle creature (ma non per questo meno epico).
Se la fotografia avrebbe dato una discreta prova di sé, la regia come sarebbe stata? Se la filmografia precedente di del Toro ci può essere indicativa, scopriamo che avremmo avuto un film dai protagonisti inusuali e al di fuori dai tropi convenzionali dell’eroe fantasy (come in “Hellboy”, 2004), con scene claustrofobiche girovagando tra i cunicoli delle Montagne Nebbiose (dal regista di “Mimic”, 1997) quando non decisamente inquietanti tra le fronde di Bosco Atro (“Il Labirinto del Fauno”, 2006), fino a dare in gestione uno dei mostri più grandi e cattivi della storia della cinematografia all’uomo che ci ha regalato “Pacific Rim” (2016).
Questo sarebbe potuto essere, e invece no: in compenso abbiamo Legolas che saltella a destra e a manca come un Super Mario in astinenza da crack. Mhm. Qualcun altro si sente truffato?
– Federico Brajda –