Vi butto lì un nome: Planescape: Torment. Se state leggendo questo articolo e tale nome non vi dice nulla, vuol dire che siete finiti su questa pagina per sbaglio o siete miei parenti/amici. In entrambi i casi siete giustificati. Ma, nonostante senta già i cori “Shame” da parte dei più-o-meno nerd scandalizzati, è giusto che tutti sappiano di cosa stiamo parlando. Si tratta di un videogioco di ruolo, pubblicato nel 1999 unicamente per PC, ispirato al Multiverso di Planescape, un’ambientazione fantasy per Dungeons & Dragons. Nel titolo bisogna vestire i panni di The Nameless One, un essere immortale che non ricorda nulla del suo passato, e intraprendere un viaggio attraverso i Piani del suddetto Multiverso per cercare di scoprire cosa gli sia successo.
L’argomento non è stato tirato fuori a caso, estraendo dei bigliettini o lanciando un dado. Il pretesto per parlarne c’è eccome! A distanza di 17 anni, infatti, ha finalmente visto la luce l’attesissimo sequel “spirituale”, Torment: Tides of Numenera. Piccolo appunto per chi si sta già fiondando a vedere come e dove giocarci: come vi abbiamo già detto, al momento è disponibile solo in Early Access su Steam, il che vuol dire che a 45$ avrete a disposizione una versione ancora “grezza” del titolo. Ma di tutto questo avremo modo di parlarne magari un’altra volta.
Adesso farei un passo indietro e tornerei a quel lontano 1999, per spiegare la portata di quello che è diventato nel tempo un vero e proprio fenomeno, e che ancora adesso in molti considerano il miglior videogame RPG mai pubblicato. Partito in sordina (la struttura non era niente di innovativo, vista la precedente uscita di Baldur’s Gate), ha resistito al passare degli anni proprio come un buon vino. Ed il motivo, se dovessi riassumere tutto in poche parole, è che compensa questa mancanza di originalità con una cornice rappresentativa eccellente, quel binomio forma-contenuto che avrete sentito mille volte alle superiori e che sta alla base di qualsiasi successo. Che poi, sia chiaro, non parlo di mancanza di originalità come se i creatori avessero brutalmente scopiazzato da qualche altro titolo: solo che l’eroe che intraprende il viaggio, con l’aiuto di altri personaggi, cercando di ristabilire un ordine delle cose che non c’è più, era un qualcosa di già visto anche 17 anni fa. È solo giocando, però, che si capisce quanto sia unico P:T.
Ciò che, a mio avviso, lo colloca in cima alla piramide della generazione d’oro dei videogiochi è il legame empatico che si stabilisce tra i personaggi e chi ha il mouse in mano. E tutto questo grazie a una profondità di temi e situazioni mai vista prima. Gli elementi sono tanti e potrei parlarne per pagine e pagine, ma vi faccio solo qualche esempio.
L’eroe. In molti hanno definito la figura di The Nameless One “eversiva”, ed effettivamente, sin dalle prime fasi del gioco, notiamo come sia tutt’altro che il classico “salvatore del mondo/mi butto a capofitto”. Anzi, è un uomo insicuro, sofferente, che nel corso del suo viaggio è portato a prendere coscienza degli errori del suo passato, affiancato da un teschio fluttuante di nome “Morte” (dal cinismo spietato e dalla lingua tagliente – il precursore del Dr. House, per intenderci) e da altre figure dalle personalità ambigue e spesso indefinibili.
L’ambientazione. Abbiamo già detto che la storia si svolge in questo Multiverso costituito da diversi “Piani”, ai quali il giocatore può accedere durante il viaggio. Mi scuserete il paragone ma io, personalmente, ho trovato qualche analogia con la Divina Commedia di Dante: una struttura a strati, in cui in ognuno di essi vigono leggi fisiche e morali particolari; entità che vanno oltre l’umano (creature divine e diaboliche, un angelo caduto); le varie sfaccettature del bene e del male rappresentate perfettamente, che accompagnano una ricerca che, prima di tutto, è interiore. Ovviamente come paragone finisce lì. Però è curioso notare come entrambi abbiano affrontato temi tutt’altro che terra terra, remando controcorrente rispetto alla tradizione del loro periodo. E che ad entrambi il merito sia stato riconosciuto solo in un secondo momento.
I dialoghi. Essi prevalgono nettamente sugli scontri durante l’avventura, e questo è stato sicuramente uno dei motivi dell’insuccesso iniziale del gioco. Ma in realtà sono proprio i dialoghi il motore di tutto: da essi dipendono i rapporti con gli altri personaggi del party, lo sviluppo della maggior parte delle quest, la costruzione del nostro TNO. Potremo avere un carattere più o meno buono, che influisce sui rapporti con gli altri membri, creando amicizie o insanabili conflitti, saremo in grado di mentire o dire la verità a nostro piacimento. E tutto questo senza doversi schierare necessariamente tra bianco e nero, ma riflettendo, per ogni decisione da prendere, sulla propria volontà, sul “ciò che farei io”.
Non so se siano cinquanta, ma queste sono le sfumature di grigio che piacciono ai videogiocatori. Nonostante sia datato, Planescape: Torment è un gioco a cui andrebbe dedicato del tempo ancora adesso. È stato uno dei primi esempi di titoli che possono affrontare temi seri in maniera profonda, in cui ci si può immedesimare nel protagonista e “vivere” la sua esperienza. Ed ecco spiegato perché, tutt’ora, c’è chi è disposto a tirare fuori dalla custodia e ricominciare un gioco vecchio di 17 anni per accompagnare “il Senzanome”.
E voi? Che ricordi avete di questo titolo?
– Andrea Camelin –