La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla.” Macbeth – Atto V Scena V.
Proprio così, Isolani, in questa recensione si parlerà niente meno che del Bardo, inteso come colui che è considerato il più grande drammaturgo mai vissuto, e non come classe di personaggio per Dungeons&Dragons (ci avevate sperato, confessate). Tradurre Shakespeare in pellicola è stato un tentativo fatto dai registi più disparati, dalla preistoria hollywoodiana fino alle ossessioni di Kenneth Branagh. A portare in sala il Macbeth, tragedia con derive fantastiche e soprannaturali, diventato archetipo della brama di potere e alle nefandezze che ne derivano, ci avevano provato Roman Polanski e addirittura Akira Kurosawa ed Orson Welles. È il turno, in questo inizio 2016, del misconosciuto Justin Kurzel, che ci propone nientemeno che Michael Fassbender e Marion Cotillard nei panni, rispettivamente, di Macbeth e di Lady Macbeth (ma dai?). Il terzetto, per inciso, ritornerà nell’attesissima trasposizione di Assassin’s Creed, in uscita per la fine dell’anno appena iniziato. La difficoltà suprema in questo genere di operazioni è tradurre il linguaggio teatrale in qualcosa di fruibile al pubblico cinematografico, molto più incline al “minchia, cheppalllllee!!…..” di verdoniana memoria, che alle raffinatezze del Globe Theathre: di sicuro al semiesordiente Kurzel non manca il coraggio.
SINOSSI
La storia è arci-iper-stranota, ma forse un veloce ripassino di massima è d’uopo, perlomeno nei confronti di chi in classe si fosse assopito strategicamente durante le lezioni di letteratura inglese: dopo aver sconfitto i nemici della Scozia, Macbeth, barone e generale del buon Re Duncan. riceve la visita, con il suo compagno Banquo, di tre misteriose figure femminili che gli profetizzano la sua ascesa a Re, e al compagno la regalità della futura discendenza. Turbato, Macbeth si confida con sua moglie, che diventa la prima sponsor dell’assassinio del legittimo Re per favorire la scalata al trono del marito. Da quel momento, la parabola del nobile si farà ineluttabile, in un vortice di assassinii, intrighi, sospetti, paranoie e sfighe assortite, fino a giungere al celeberrimo finale.
DORMIRE, FORSE SOGNARE
Per fortuna no. Tanto scetticismo e la paura di sprecare due ore della mia vita a sorbire il solito adattamento pretenzioso del regista esordiente ad uno dei capolavori della drammaturgia mondiale: mai sono stato tanto lieto di ricredermi come in questo caso. Kurtzel con intelligenza, davanti ad un qualcosa tanto più grande di lui, fa un passo indietro e lascia parlare Shakespeare. La sceneggiatura è rispettosissima dell’originale teatrale, cambiando solo nei punti non adatti ad una narrazione e ad un intreccio cinematografici (e mai in modo da alterarne la forza). Le battute sono praticamente le stesse recitate da cinque secoli a questa parte sui palcoscenici di tutto il mondo: il regista sceglie anche qui di lasciar parlare l’autore. Scelta quantomeno pericolosa, perché sposta il pallino in mano agli attori, dei quali in questa produzione, per motivi anagrafici, non ne figurano di formazione Shakespeariana (Ian McKellen, Ian Holm, Patrick Stewart, Peter Cushing, solo per citarne alcuni noti a noi amanti del fantastico). E invece scommessa vinta anche sotto questo punto di vista: Fassbender magnifico e potentissimo nella sua essenzialità, Marion Cotillard tentatrice, maligna ed ambigua nei propri sensi di colpa. All’altezza anche tutti gli altri, a partire da David Thewlis, convincente Re Duncan, alla nemesi di Macbeth, il barone MacDuff di Sean Harris.
Kurtzel interviene, invece, dove può e deve con grande intelligenza, dosando sapientemente il ritmo del racconto, dando lo spazio dovuto ai monologhi ma facendo in modo, con tanti piccoli accorgimenti, che non siano deleteri per la narrazione, e adattando soluzioni proprie del mezzo cinematografico senza perdere rispetto per l’originale. Non manca il giusto riconoscimento al paesaggio scozzese, vero e proprio personaggio, benedetto da una fotografia eccezionale, potente e asciutto come il dramma umano in corso (le location spaziano tra le highlands e il Surrey, con perle come il castello di Bambourgh, l’altopiano del Quiraing e la Cattedrale di Ely). Doverosa citazione per la colonna sonora, che alterna pezzi orchestrali, strumenti locali come cornamuse e arpe, e stridio di archi in un crescendo di tensione e rigorosa bellezza. Tutto questo concorre a far sentire tutta la presa della pellicola, che cattura l’attenzione in modo ferreo ma sottile. Personalmente ho iniziato la visione comodamente sprofondato nello schienale della poltrona per arrivare, un grado radiante alla volta, al fatidico The End completamente proteso in avanti e artigliato allo schienale della poltroncina di fronte. Ma ne ho avuto coscienza solo al termine dei titoli di coda.
– Luca Tersigni –
- Recitazione magnifica;
- Rispetto per l’originale;
- Fotografia stupenda;
- Questo è Shakespeare sul serio, signori;
- A voler cavillare, un certo autocompiacimento del regista nelle scene di guerra, della serie: guardate quanto sono bravo a rifare Sergio Leone;