Il mio rapporto con George R.R. Martin è un otto volante di curiosità e delusione. Per quanto lo ritenga un buon cantastorie, lo valuto un discutibilissimo scrittore terribilmente riempito di sé già a partire dagli anni ’80. Mi avvicino regolarmente ai suoi prodotti suggestionato dalle opinioni positive di molti, o incappo per caso nei suoi lavori remoti, ma sovente mi ritrovo balbo davanti a testi mediocri e prevedibili o, ancor peggio, completamente instupiditi dal bruciante desiderio di voler creare colpi di scena mozzafiato. Ogni volta mi riprometto di lasciarlo perdere e continuare per la mia strada, ma dopo qualche mese ecco che mi trovo nuovamente davanti a una produzione che porta la sua firma, per la quale sento la necessità di offrirgli l’ennesima possibilità. George Martin è per me un po’ come il Didò: si sa che ha un pessimo sapore, ma ogni tot di anni è necessario acquistarne un barattolo giusto per ricordarsi quanto sia fastidioso quel suo sapore salato e pungente. Cosa? Dite che non avete mai acquistato il Didò per poterlo assaggiare? Oh, capisco.. fa niente.
Circa una settimana fa mi è capitato sotto gli occhi un brossurato Panini che trasudava fantasy al punto da bagnare l’espositore su cui poggiava (figurativamente). Quattro guerrieri che si aprono un varco tra fitti cespugli di rovi, armi improbabili, torce incandescenti, una bionda in vestiti sexy e il tanto familiare ottagono che etichetta l’albo come inadatto agli occhi dei più giovani. Ci ho messo un attimo a notare il titolo, George R.R. Martin’s In the House of the Worm, ma è stato un momento di troppo e la mia curiosità aveva già decretato che il fumetto sarebbe finito tra le mie grinfie. Sin da subito, però, ho avvertito un senso di fastidio, anche se la parte conscia del mio Io non era in grado di razionalizzare la pessima sensazione.
Annelyn è un giovane edonistico e narcisista, un sibarita senza speranze che frequenta gli ambienti buoni dei Figli della Casa/Casato del Verme, il culto che tiene unito il popolo e si snoda tra pratiche sociali e religiose. Annelyn è anche un bullo snob, un individuo che festeggia la lenta morte del proprio sole noncurante dell’altrui benessere e sempre pronto a professare dogmi di cui non capisce il senso. È proprio il suo discutibile carattere a trascinarlo nell’impresa che cambierà il suo destino: desideroso di vendetta nei confronti del mieti-carne, un nerboruto cacciatore reo di avergli soffiato la ragazza, ordirà coi suoi amici un agguato nelle viscere della terra per poter sfogare il proprio rancore.
Come ci si potrebbe aspettare, le cose non vanno affatto secondo le previsioni e il giovane protagonista si ritrova solo e disperso in claustrofobici antri oscuri, abbandonato a creature immonde e inseguito dai leggendari esseri subumani noti come terrani. Senza punti di riferimento, Annelyn dovrà quindi affrontare una sua personale odissea che gli permetterà di acquisire nuove prospettive, riscoprendo gradualmente il passato della propria gente e gettando le basi di un nuovo futuro.
Il volumetto è la trasposizione fumettistica dell’omonima novella adattata da… eppure qualcosa non mi torna in questo fumetto, ci penserò dopo… adattata, dicevo, dall’ottimo John J. Miller e illustrato dal capace Ivan Rodriguez. Il risultato della collaborazione sono quattro “spillati” agili e fluidi che si leggono con passione nel giro di mezza giornata; il contenuto è inoltre sorprendentemente piacevole, considerando la mia diffidenza nei confronti della sua fonte. Nulla di eclatantemente rivoluzionario, ma innegabilmente gradevole: si nota un po’ de “La macchina del tempo”, qualche punta del film “The Descent” e un’atmosfera cupa degna di Lovecraft. Il ritmo, inizialmente un po’ lento, incalza presto accalappiando il lettore in un’esperienza coinvolgente che, ahimè, si infrange contro un epilogo brusco e affrettato che, pur non rovinando il valore dell’opera, fa storcere il naso con sommo dissenso. Non mi sarei mai aspettato di ammetterlo, ma per una volta avrei voluto che un qualcosa partorito dalla mente di Martin fosse durato più a lungo.
Eppure qualcosa non mi torna ancora. Ritorno alla prima pagina e rileggo da capo nella speranza di riuscire a sintetizzare la fonte delle mie perplessità. Lo faccio nuovamente e presto maggiore attenzione, e finalmente trovo quello che inconsciamente stavo cercando: la colorazione è affidata a Digikore Studios. Magari a voi non dice nulla, ma io mi sono già imbattuto in questo studio indiano a cui sembrano affidarsi numerose pubblicazioni di nicchia, e il risultato del loro operato, in quell’occasione, fu quantomai nauseabondo. Fortunatamente Ivan Rodriguez, forte della sua comprovata esperienza, sa come inchiostrare una tavola prima di affidarla a terzi; le pagine, pur indebolite da scelte cromatiche non sempre azzeccate, riescono comunque a mantenere una certa dignità perdendo di potenza esclusivamente nell’epilogo che, a causa delle tempistiche contratte, sembra aver dovuto sacrificare diverse vignette per scendere a compromessi con la stampa.
–Walter Ferri–
In the house of the Worm di George Martin: recensione
Isola Illyon
- Di facile fruibilità;
- Insolito approccio narrativo;
- Dannatamente cupo;
- Colorazione pessima;
- Finale affrettato;