Un film di Ridley Scott è sempre un evento da tenere attentamente sotto osservazione. Quando poi il film è di fantascienza, il livello di allerta sale a dismisura. Anche se questo Sopravvissuto – The Martian, in realtà è più un film di sopravvivenza ambientato durante una missione spaziale. O meglio, una specie di Robinson Crusoe o Castaway di ambientazione sci-fi.
In ogni caso, il maestro Scott non si cimentava con la fantascienza dal 2012, dai tempi del controverso Prometheus, quindi la curiosità di rivedere il cineasta britannico tornare in scena col genere del quale ha contribuito a scrivere pietre miliari come Alien e Blade Runner, era tanta.
Uscita nelle sale italiane il 1° ottobre, la pellicola è tratta dal romanzo del 2011 “L’Uomo di Marte” di Andy Weir.
SINOSSI
In un futuro molto prossimo, l’esplorazione spaziale dell’uomo è ripartita. L’uomo ha messo piede sulla superficie marziana grazie al programma spaziale della NASA Ares, versione del nuovo millennio del programma Apollo che permise lo sbarco dell’umanità sulla Luna. Il botanico Mark Watney fa parte della missione Ares 3, incaricata di rimanere sul pianeta rosso per circa un mese in un’apposita base modulare per condurre esperimenti scientifici, raccolta di dati e di campioni in previsione di una futura colonizzazione umana. L’imprevisto si presenta sotto forma di una potentissima tempesta atmosferica che costringe l’equipaggio all’evacuazione della base e all’abbandono dell’intera missione mentre Watney, ritenuto morto dai compagni in seguito ad un incidente, in realtà sopravvive e si ritrova ad essere l’essere umano più lontano da casa di sempre, abbandonato a centinaia di milioni di chilometri dalla Terra.
Dovrà dar fondo a tutta la sua arguzia, praticità e puro istinto di conservazione per cercare di sopravvivere agli innumerevoli giorni di solitudine che gli si parano davanti, mentre sulla Terra la volontà di chi cerca di riportarlo a casa, una volta accortisi della sua sopravvivenza, dovrà scontrarsi con la ottusa ragion di stato e le immancabili sottigliezze dell’ amministrazione governativa….
MESSAGGIO IN BOTTIGLIA
Sgombriamo subito il campo da ciò che questo Martian non è. Non si tratta del classico film di fantascienza, l’elemento alieno è assente, così come la componente bellica e la componente prettamente esplorativa o sociale, che spessissimo sono elementi portanti del genere. Potremmo fare un’analogia con Apollo 13, non fosse che in quel caso si tratta di un’accurata ricostruzione storica mentre il lungometraggio di Ridley Scott immagina una tecnologia spaziale di un futuro prossimo più che verosimile ma comunque in gran parte non ancora presente, giustificando il genere fantascientifico. In ogni caso l’atmosfera generale della pellicola è simile.
Visivamente si nota la mano di Ridley Scott: la cura maniacale delle immagini e delle inquadrature è il marchio di fabbrica di Scott, e non tradisce nemmeno in questo caso. La fotografia dei paesaggi marziani (ricostruiti nel deserto della Giordania del Sud) è davvero maestosa, di una bellezza struggente e al tempo stesso di una vastità e desolazione opprimenti. La verosimiglianza della tecnica astronautica, delle procedure, del design delle componenti spaziali (tute, moduli, astronavi, rover hanno un che di familiare, di storico e di futuristico tutto insieme) e delle teorie scientifiche alla base della navigazione interplanetaria è assoluta e testimonia l’immenso lavoro di documentazione e ricerca che sta alla base del film. Verosimiglianza che si incrina significativamente solo verso la fine, non compromettendo in ogni caso più di tanto la qualità complessiva del film da questo punto di vista.
Narrativamente parlando, uno dei più grandi punti interrogativi del film risiedeva proprio nella difficoltà dell’attore di interpretare un ruolo che non prevedeva praticamente nessuna interazione umana per la quasi totalità del film. Anche se personalmente non è un attore che amo particolarmente, Matt Damon tiene la posizione da questo punto di vista, per quanto consentito dalle scelte registiche. In ogni caso il problema viene definitivamente risolto intrecciando la vita solitaria di Watney su Marte con le vicende dell’equipaggio sopravvissuto in rotta di ritorno verso la Terra, e soprattutto con le vicende dei responsabili tecnici e politici della missione alla NASA.
Uno dei punti di forza del film in effetti è l’aver reso al meglio le dinamiche di un’agenzia governativa famosa come l’ente spaziale americano, durante una crisi, in modo così credibile ed efficace da rendere le interazioni tra i vari protagonisti concrete, verosimili e nient’affatto scontate. Complice in questo la grande prova del cast composto da nomi altisonanti, a cominciare da un credibile Jeff Daniels nella parte del capo della NASA, a continuare con Sean Bean (che per una volta non muore), Jessica Chastain, Michael Peňa, Kate Mara e a chiudere con Chiwetel Ejiofor, che rendono le vicende a terra e sull’astronave al ritorno le parti narrativamente più interessanti. Divertenti e ricercati, a tratti geniali, sempre credibili, gli espedienti tecnico-scientifici coi quali sia il naufrago spaziale che il personale a terra cerca di porre rimedio alla situazione – senza mai peraltro scadere nei meccanismi improbabili alla McGyver.
Dove il film mostra un po’ il fianco, a parte qualche forzatura di trama evitabile (soprattutto il finale, dove per amor di spettacolarità la pellicola perde un po’ la bussola di ciò che lo spettatore è disposto ad accettare), è soprattutto nella scelta del regista di non approfondire più di tanto l’aspetto psicologico di un uomo condannato alla solitudine per così tanto tempo in un ambiente ostile, ovvero nel non aver avuto il coraggio di sondare la sindrome del naufrago, che dovrebbe essere il nucleo centrale di una pellicola del genere: Matt Damon se la cava in agilità per quasi un anno e mezzo, a milioni di chilometri da casa, sempre in pericolo di vita e potendo parlare giusto coi muri, con un po’ di battute e un po’ di autoironia; il tutto conservando un equilibrio mentale ammirevole, manco fosse su una spiaggia delle Seychelles a sorseggiare Mojito e non su una sterminata spiaggia di sabbia rossa a diversi minuti-luce dalla Terra.
Di tutta la gamma di stati d’animo che può attraversare una psiche umana in condizioni così estreme non v’è traccia: tranne nel finale dove il povero Matt Damon è costretto ad affastellare un’emozione dietro l’altra, come se Scott si fosse improvvisamente reso conto di aver trascurato questa parte fondamentale e avesse tentato all’ultimo di porvi rimedio.
Per carità, si può capire la scelta di concentrarsi su altre vicende della narrazione, e nessuno si attendeva un film sul dramma della psiche umana come per esempio, per rimanere a film recenti (2013), l’immenso Robert Redford di All is Lost (naufrago sulla sua barchetta nella vastità dell’oceano e non nello spazio), ma da questo punto di vista era lecito attendersi qualcosa in più, ed è un aspetto che mina la credibilità generale della vicenda molto più di qualche forzatura nella trama. Ultima menzione per la colonna sonora davvero azzeccata e solo apparentemente fuori contesto, che da David Bowie a Happy Days, da Gloria Gaynor a Donna Summer pesca a piene mani dal periodo d’oro dell’epopea spaziale, dagli anni ’60 fino agli ’80.
Insomma, sarà sopravvissuto, il film, all’infallibile giudizio dell’Isola?
– Luca Tersigni –
Sopravvissuto – The Martian – Recensione
Luca Tersigni
- Fotografia eccezionale
- Buona credibilità tecnica complessiva
- Cast assolutamente all’altezza
- Buon ritmo e intreccio interessante
- Poco approfondimento psicologico dello stress del naufrago spaziale
- Qualche forzatura tecnica di troppo per esigenze di trama