Il problema non è il problema, ma il punto di vista da cui guardi il problema: Orphan Black, con il suo continuo gioco di specchi, incarna alla perfezione questo modo di dire, ribaltando in continuazione il punto di vista narrativo sfruttando un manipolo di cloni dall’aspetto uguale, e dalla psicologia completamente diversa.
Ormai conclusasi negli USA la terza stagione, lo show firmato BBC America è già stato rinnovato per la quarta, in arrivo nel 2016. Rinnovo tutt’altro che inaspettato, visto l’amore incondizionato che molti fan hanno dimostrato per una serie che ha saputo stupire con la dinamica del succitato gioco di specchi e la solidissima interpretazione di due attori, Tatiana Meslany e Ari Millen, in grado di passare da una personalità all’altra con relativa semplicità, costruendo e personalizzando i vari cloni dei propri personaggi. Impossibile non elogiare la loro capacità, soprattutto della Meslany che, nel corso delle stagioni, si è trovata non solo a dover gestire in totale sette (cavolo!) personalità, ma anche a doverlo fare con cloni che impersonano cloni, con tutta la complessità recitativa del caso. Per questo si è guadagnata un premio Critics’ Choice Television Awards e un TCA Award come miglior attrice in una serie televisiva drammatica, e diverse nomination per lo stesso ruolo fra Golden Globe, Screen Actors Guild Awards e tanti altri. Meritatissimo, quindi il successo della Meslany – speriamo che con il ruolo di peso delle cloni di Orphan Black la sua carriera possa davvero decollare!
Per Ari Miller, invece, non è ancora arrivato niente, ma i cloni maschili sono stati introdotti solo nella terza stagione – in Italia li vedremo presto, quando Premium Action riuscirà a confermare e riordinare il proprio incasinatissimo palinsesto (sì, non riesce a fornire all’utenza un calendario…). Eccezionale, comunque, la sua mobilità facciale, che gli permette di passare da adorabili sorrisetti inquietanti, a grugni più duri del granito.

Rachel, Allison, Sarah, Cosima, Helena: tutte interpretate dalla superba Tatiana Meslany.
Ma torniamo all’inizio. Rispetto a quanto temuto dalla maggior parte degli spettatori dopo la visione del pilot della prima stagione, Orphan Black non è stata una caricatura di Ringer, serie tv headshottata direttamente alla prima stagione, bensì un prodotto non solo autonomo, ma eccellente per intreccio e scelte di sceneggiatura. Certo, si può commentare che ci siano rimandi a prodotti tipo il citato Ringer o Dark Angel, ma non si va oltre il vago sentore. Tranne per il montaggio della sigla, che a tantissimi ha ricordato l’amata Fringe, che secondo molti di noi meriterebbe un vero e proprio finale – e quindi forse la vediamo un po’ ovunque.

Beth
Dal pilot in poi, la trama è decollata con una serie di filoni narrativi molti paralleli, e gli altri consequenziali l’uno all’altro, per poter approfondire la storia. È complesso mandare avanti le trame personali di cinque protagonisti e quelle di alcuni personaggi secondari, e nello stesso tempo avere una solida trama orizzontale: la scrittura di Orphan Black però ci è riuscita, senza mai lasciare troppi fatti inspiegati o saltare da un punto all’altro senza chiarire allo spettatore i motivi di ognuno di essi. Ovviamente resta il solito piccolo problema di fondo: l’arrivo del personaggio giusto al momento giusto/sbagliato, ma questo è parte del gioco di sceneggiatura (purtroppo), soprattutto quando in scena ci sono così tanti filoni narrativi e la disponibilità di una decina di episodi soltanto (scelta non obbligata, visto gli ottimi numeri collezionati dallo show). È anche vero che i personaggi inseriti è un peccato non “usarli” se ti si presenta l’occasione: i tutto, a mio parere, è sia un punto forte di questa serie tv, sia un piccolo problema, essendo che la maggior parte delle puntate sono davvero dense, forse troppo, e perdersi dettagli implica capire di meno alcuni passaggi. Insomma, non è una serie da “mi passo 40 minuti in rilassatezza”, ma una di quelle che pretende la nostra attenzione dall’inizio alla fine.
Tutto è iniziato con Sarah, che torna a casa per trovare un modo (soldi) per poter riavere sua figlia Kira, affidata a Mrs S., la sua stessa madre adottiva. Il problema è l’ex fidanzato Victor, un tossico a cui ha rubato la droga. Tuttavia, nel momento del suo arrivo alla stazione, Sarah incrocia la strada con Beth, una donna identica a lei, che però si butta sotto il treno di passaggio. La protagonista decide quindi di afferrare la borsa della suicida e assumerne l’identità, sicura che la vita di Beth è certamente migliore e più ricca della sua.
Le ultime parole famose, visto che Beth è una poliziotta sospesa per aver sparato ad un civile e, soprattutto, è in possesso di documenti riguardanti altre persone identiche a lei e Sarah. Gli incontri con le sue cloni iniziano presto, finché nella prima stagione Sarah riesce a individuarne quattro intorno a sé: la madre di famiglia Allison e la nerd-studiosa Cosima, con cui collabora fin da subito; la folle Helena, un’invasata religiosa dei proletiani, che lavorano per uccidere i cloni; e Rachel, che riveste una posizione di comando presso DYED, una multinazionale che promuove lo sviluppo dei cloni.

Krystal
Possiamo essere certi che ogni personaggio che vediamo apparire abbia un ruolo ben preciso: niente è lasciato al caso in questa serie. Individui preposti al monitoraggio dei cloni sono nascosti fra le persone vicine ad ognuna delle ragazze, nemici affiliati con i proletiani spuntano di quando in quando, agenti DYAD interferiscono con la giustizia, amici, amanti, familiari: bisogna guardarsi da tutti, ma al contempo bisogna essere pronti a fidarsi di ognuno, perché le sorelle (i cloni) non possono mai sapere chi le aiuterà (anche fra gli apparenti nemici) e chi cercherà di ostacolarle (anche fra gli apparenti amici). Sotto questo punto di vista, Orphan Black è prima di tutto una serie psicologica, secondariamente fantascientifica, seppur tocchi un tema – quello dei cloni – molto caro agli autori scifi di ogni tempo, e fondamentale anche nello sviluppo tecnologico di questo millennio e per l’approccio sempre più critico della bioetica ai problemi della scienza.
Nella seconda stagione i temi iniziati nella prima si svolgeranno, e alcuni verranno portati a compimento. Nella terza, l’arrivo dei cloni maschili del progetto Castor aumenterà la sensazione di “allucinante” trasmessa dalla serie, perché metterà a confronto due stock di cloni completamente differenti, costretti a confrontarsi per trovare il materiale genetico originale, necessario a guarire entrambi dalla degenerazione del proprio genoma. Tuttavia, anche in questa stagione non tutto ciò che si intravede e che viene rivelato è la sola verità: accanto all’ottimo proposito di curare i cloni, c’è il progetto di un’arma biologica e dei dirigenti che non solo sfruttano le loro creature come fossero oggetti di loro proprietà, ma sono pronti a farsi solo e soltanto i propri interessi. Quali? Ancora non è dato saperlo.

Uno dei cloni del progetto Castor.
Insomma, Orphan Black risulta appassionante, ma devo aprire due parentesi, una positiva e una negativa.
La parentesi positiva riguarda il tema. La clonazione ha sempre un discreto impatto sul pubblico non specialistico (intendo per i non appassionatissimi di sci-fi e per i non biologi), e permette riflessioni etiche e morali profonde tanto quanto quelle presentate da Person of Interest riguardo al tema “intelligenza artificiale” e “deus ex machina”. Orphan Black sfrutta appieno il tema e lo accentua con la giusta dose di paranoia. Emblematico l’impegno messo dagli sceneggiatori nel far trovare codificata nel genoma dei cloni di Sarah la frase “questo organismo e il materiale genetico derivato sono una proprietà intellettuale limitata”. Credo sia l’affermazione più forte di tutto lo show. Pensate di trovarvi appiccicato un bollino del genere: io penso mi suiciderei senza mezzi pensieri (per la serie “non mi avrete mai da viva!”).
Dall’altra parte, parlando di clonazione, genoma, malattie degenerative causate da corruzione di DNA e così via, subentrano per forza di cose gli strafalcioni. In questa serie ne ho visti di allucinanti, roba che la mia prof di biologia alle superiori si sarebbe tolta il tacco (rigorosamente largo) e avrebbe iniziato a martellarlo sulla testa degli sceneggiatori. Sono d’accordo sul fatto che nessun prodotto di fiction (finzione) debba essere scientificamente accurato al 100%, ma se ti occupi di una serie tv come questa… perché non prenderti un consulente tecnico, magari un biologo? Almeno si eviterebbe di far estrarre delle cellule staminali da un dente.
– Lucrezia S. Franzon –