Mai sottovalutare i prodotti indipendenti, l’ho sempre sostenuto. Spesso e volentieri, seppur a fronte di budget più limitati e (talvolta) di una CGI di livello inferiore, presentano storie, ambientazioni e personaggi più interessanti di quelle viste in produzioni più blasonate, frutto di una vera passione e non di mere operazioni commerciali. Soprattutto, possono raccontare la storia che vogliono, non quella che il pubblico richiede, e senza doversi preoccupare dei limiti imposti dalla malefica censura. Sì, perché tutte le produzioni hollywoodiane, per quanto possano essere trash, gore, splatter o horror, devono comunque seguire le regole del politically correct e non superare determinati confini, pena minima la bocciatura del prodotto e l’intervento in pompa magna di organi, associazioni para-religiose, servizi dei consumatori infuriati, madri di famiglia armate di mattarello… vedi il caso Lucifer, insomma.
Quelli indipendenti, invece, seguono delle regole personali a seconda di di le finanzia. I loro limiti sono di solito solo un generico rispetto per le basi più comuni del politically correct, ma capita spesso che quegli stessi prodotti prendano determinati stereotipi e ci ridano su (mi viene in mente, per esempio, il protagonista di colore di Iron Sky, che viene ampiamente preso in giro proprio per la sua appartenenza razziale – cosa che nessuno farebbe mai fuori da un film ironico come questo, che in effetti scherza un po’ su tutto).
Parlando invece di prodotti canadesi, il primo pensiero che ho è sempre “oddei, scampatecene”. Quando si tratta di thriller, horror o azione, se vengono dal Canada non sono mai delle perle che brillano per… beh, in genere non brillano per niente. L’esempio lampante è Cube, la cui idea di fondo è splendida se inquadrata in un horror/gore/trash, che è effettivamente il genere di questo film. Tuttavia dopo un’oretta, all’ennesima stanza, inizia a risultare noioso e lo spettatore non può che invocare una fine che arrivi, possibilmente, nei successivi dieci minuti, ma che tarderà invece per altri trenta (nel frattempo, dopo accese e assurde discussioni, interpretazioni di codice, e scelte sbagliate, i protagonisti passano da sette a uno).
Le pecche dei canadesi? Varie. A volte sono prolissi, a volte hanno idee assurde, a volte buoni soggetti e sceneggiature senza ritmo, a volte sono poco appassionanti. Qualsiasi cosa che arrivi dal Canada, incapperà quasi di sicuro in uno di questi problemi. Poi però, nello stesso anno di Cube, ci regalano perle vere come Hemoglobine. Chi li capisce è bravo…
Forse è l’influenza neozelandese il motivo per cui mi aspetto molto da Turbo Kid – produzione congiunta fra Canada e Nuova Zelanda, insieme in un’alchimia ancora tutta da verificare. Però se ci sono loro in mezzo, c’è ancora speranza. Il buono dei neozelandesi è che hanno un modo molto british di fare film, come nel caso di Perfect Creature, che unisce un gusto vittoriano alle atmosfere urban fantasy caratteristiche di molti prodotti di successo degli ultimi anni: c’è da chiedersi, in sostanza, cosa siano stati in grado di fare ripescando il post apocalittico degli anni ’80. Turbo Kid ha recentemente ottenuto un buon successo esordendo al Sundence Film Festival (riservato alla cinematografia indipendente), guadagnandosi subito l’etichetta di film che rimette in gioco temi, atmosfere, colori e modi del cinema anni ’80 – quello che, volenti o nolenti, non riusciremo mai a staccarci di dosso, come tutti gli “styles” introdotti in quel periodo.
E di questi “styles” Turbo Kid ne è pieno. Niente nomi per i personaggi coinvolti nella pellicola, solo soprannomi: The Kid (Muno Chambers) per il protagonista, anche se troppo ragazzino non è; Apple (Laurence Leboeuf) per la ragazza-robot che lo accompagna (sicuro tributo al noto marchio della mela morsicata); Skeletron (Edwin Wright) per il braccio destro del nemico (no, dico… Skeletron? Potevano chiamarlo Skeletor e poi farlo andare in giro a gridare “Tutto quello che faccio è per la gloria del male!”); e Zeus (Michael Ironside) per il cattivo, proprio come l’overpowered dio greco preposto a piogge e saette.
Piogge che, in un mondo vessato da un inverno nucleare, sarebbero anche preziose, e che non costringerebbero i sopravvissuti a scontrarsi con l’esercito mascherato (in puro stile anni ’80) del malvagio Zeus.
In Turbo Kid ritroviamo Interceptor, Ken il Guerriero, La Banda delle BMX e Manborg. Il concept design del protagonista mi ricorda quello di Tron o di Astroboy, mentre il casco sembra uscito direttamente da Starblazer (riportato sul grande schermo proprio l’anno scorso con il fantastico La Corazzata Yamato). Apple è un mix fra i capelli di Jem e le tutine di Yattaman. Skeletron è un pizzico di Skeletor sapientemente mescolato con il design del Dr. Doom. E Zeus invece ricalca ogni singolo personaggio con una benda sull’occhio comparso negli anni ’80, da 1997: Fuga da Los Angeles in poi. E non sarà mica un caso che pure Turbo Kid è ambientato nel 1997?
Questo film inanella una dietro l’altra una serie infinita di citazioni al genere, ed è in prima battuta un grande omaggio che invita gli appassionati a scoprire tutti gli “easter egg” che ha nascosto nella sua storia.
La storia è sì vista e rivista, ma mantiene la sua attrattiva: la pellicola parla di come un rigattiere appassionato dei fumetti di Turbo Kid si trasformerà da pavido sopravvissuto a coraggioso eroe chiamato “The Kid” per salvare Apple, la sua amica-robot, dalle grinfie dei perfidi Zeus e Skeletorn. Il film è ambientato tutto nel deserto, quello del Quebec, che il protagonista attraverserà sulla sua BMX (annoto che quella di Apple è modificata per sembrare un unicorno!).
Il tutto è condito con musica elettronica (dei canadesi Le Matos) e con quella sana esagerazione caratteristica del post apocalittico, senza farsi mancare una bella dose di sangue, violenza e budella capace di far eccitare Tarantino e Rodriguez – da sempre fermi sostenitori di questo tipo di cinematografia, che hanno ampiamente ripreso ed esaltato con i loro A prova di morte e Planet Terror.
Per ora, comunque, resta sconosciuta un’eventuale data di uscita nelle sale – che dubito fortemente passerà mai nei cinema, trattandosi di un prodotto indipendente privo di una distribuzione capillare fuori dal web.
Se si tratterà di una scemenza d’altri tempi, o di un film in grado di farci riassaporare la cattiveria anni ’80, recentemente rivista in Mad Max: Fury Road, questo è ancora da scoprire, ma io sono fiduciosa: il mix si preannuncia davvero esplosivo.
– Elena Torretta –