Isolani, state andando al cinema? Il periodo natalizio è sempre pullulante di nuove novità, dai capolavori come Interstellar agli immancabili, desolanti, degradanti film in stile Boldi-De Sica. Evidentemente, gli spettatori sono ancora abituati a ridere per la gag della zip dei pantaloni. Chapeau. Tornando sul pezzo, capita di decidere, dopo la visione dell’ultima fatica nolana (salutiamo i ragazzi del Barbalbero Fan Club di Nola, vicino Napoli, ma non siete voi in questo caso), di voler non assistere più a nulla che venga trasmesso in sala per il restante 2014 (tranne Lo Hobbit), dedicandoti solo alla meraviglia del Blu-Ray e dell’alta definizione. Qualcuno, in Redazione, porta avanti una vera e propria campagna di sensibilizzazione. True story. Tuttavia, trascinato da una parola data tempo addietro, vai a vedere Hunger Games 3, Il Canto della Rivolta. E ricordate, come diceva Dragonheart, che la parola data è sacra. Un cavaliere è votato al coraggio, e dice solo la verità. Ad ogni modo, assisti ad un film che, originariamente, avrebbe dovuto essere uno ma che, per evidenti motivi di lucro, è stato segato in due, manco fosse Annapaola, l’assistente bionda di Mariano, il mago di Capezzano, al numero delle lame. A proposito, chiamami, non ti ho mai dimenticato. Insomma, rimani annoiato, perplesso, interdetto. Ecco a voi i tre motivi per i quali Hunger Games – Il Canto della Rivolta (parte 1) mi ha deluso profondamente.
DISCLAMER ANGELICO: chi vi scrive non ha letto i tanto decantati libri firmati Suzanne Collins, si attiene solo a quanto visto su pellicola. So che, sulla carta, il monologo interiore della protagonista renderà tutto al meglio, ma qui si parla di pellicola e di una dimensione visiva che, per forza di cosa, deve avere un altro impatto e un’altra intelaiatura. Evitiamo, pertanto, flame inutili tra i commenti, attenendoci al filo conduttore dell’articolo che resta, sottolineo nella mia personale prospettiva.
1) Monotonia portami via
Siamo onesti: in HG 3 non succede nulla. Niente di eclatante, niente di emozionante, eccetto rarissimi casi. Il film si trascina svogliatamente fino agli ultimi 10 minuti che, per forza di cose, devono creare l’impennata di hype necessario e riportare in sala un pubblico che, cosa accaduta veramente, non si è risparmiato di lanciare qualche vaffa per l’inevitabile cliffhanger. I precedenti episodi della saga di Katniss Everwood e compagni, contro la dittatura dell’algido ma letale Snow, mantenevano una sottotrama distopica (molto sotto, ma ci torneremo), mitigata di prepotenza, in entrambi i casi, dalla frenesia dell’arena, dallo scontro all’ultimo sangue tra una manciata di ragazzini gettati a morire, chiaro eco del cruento Battle Royal di Koushun Takami. E qui? Si vaga, si vaga tra le macerie e si parla, si parla e si vaga, testimoni sul campo dell’efferatezza di Capitol City, che brucia tutti i dissidenti, ergendo la bella eroina interpretata dalla splendida, splendida Jennifer Lawrence, a cristologica figura mediatica della resistenza. Per una le cui foto succinte hanno fatto recentemente il giro della rete (oculisti e ottici ringraziano), occhio alla citazione a Madre Teresa, nella scena dell’ospedale. Salvo poi scoprire che fine faranno quei malati. Ma non fermiamoci.

Tutti insieme, Esploratori e Guide, vai col saluto degli Scout!
2) Freud stiracchiato su troppo pane
Le debolezze di fondo della saga divengono lampanti nell’evoluzione psicologica dei protagonisti che, onestamente e con trepidazione, aspettavo da circa due film e passa. E non venitemi a dire che sono libri per bambini/adolescenti, perché anche Harry Potter è partito così, salvo poi diventare un prodotto coi controcoglioni, che si poteva permettere di essere diviso in due parti, nel finale, per la complessa architettura narrativa imbastita dalla Rowling. In questo lungometraggio, i miei timori si sono rivelati fondati. Il dover, per forza di cose, allargare la veduta d’insieme degli eventi alla totalità della Resistenza e dei suoi eroi stipati nel bunker del Distretto 13 avrebbe comportato, a mio avviso, una caratterizzazione migliore degli stessi. Il problema di base è che Hunger Games si avviluppa e si sviluppa sempre e solo sulla sua protagonista, sul suo essere vittima inconsapevole della Rivoluzione e sul sulla sua torbida altalena sentimentale. Chi c’è attorno a lei è solo contorno, presentato di sfuggita e mai approfondito, come una formica che passa sotto al benigno raggio di sole che sta coccolando una pigra lucertola. Ora, immaginatevi chi è la formica e chi la lucertola. Bravissimi. Mi aspettavo tanto dallo stratega Plutarch, interpretato dal fu Philip Seymour Hoffman, mi aspettavo tantissimo dall’Haymitch di Woody Harrelson, visto brillare recentemente in True Detective. Niente, la sua storia nei precedenti 50esimi Giochi della Fame non viene mostrata, né accennata. Speriamo nel sequel. Intanto, premio Vodafone e “Il Triangolo No” a Katniss. E premio l’Esorcista a Peeta, che nel finale passa al Lato Oscuro.
3) Dystopian Rhapsody
E qui giungiamo al tasto dolente. Posso passare sopra alla mancanza di azione, posso ignorare la psicologia all’acqua di rose, ma in una saga improntata sulla dittatura di un regime totalitario e, quindi, sulla distopia, non si può mettere in ombra in tal modo lo scenario di fondo. Che resta sullo sfondo. Per quanto la scena della marcia alla diga sia in crescendo, per quanto un attacco del popolo vessato e lacerato alle guardie simil-stormtrooper in una foresta restino discrete scene, girate bene e di ottimo impatto visivo, vanno considerate le uniche perle di genere, buttate lì in maniera improvvisa e alquanto isolata. Ma non mi bastano. Cosa succede a Capitol City mentre fuori il popolo si organizza e assale i centri di potere? E come arriva ad organizzarsi, materialmente? Io non voglio pretendere la scena finale di V per Vendetta, ma un minimo di approfondimento in più è chiedere troppo? Probabilmente sono io, appassionato del genere, ad essere troppo esigente e ad avere avuto aspettative troppo alte, e credere che si possa essere incisivi anche con due inquadrature organizzate al meglio. Sergio Leone ci girava film interi, così.

“You won’t see me comin’…till I strike”
4) Bonus: Julianne Moore, mon amour.
Il punto bonus, e finale, di questa disamina della delusione di Mario Venezia, è stata la pugnalata al cuore più grande. Molti di noi sono cresciuti ammirando sullo schermo le straordinarie doti di un’attrice redhead da applausi. Molti di noi reputano quell’attrice il motivo per il quale amano le redhead. Così misteriose, così cariche di fascino ed erotismo magnetico. Quando vidi per la prima volta Hannibal, agli albori del secondo millennio, me ne innamorai all’istante. In Hunger Games mi avete tolto anche questo, e Julianne Moore è una grigia presidentessa di periferia. Come si dice, “mai una gioia.”

Che dite? Io direi che è meglio rossa…
Tirando le somme, fanboys e fangirls, non prendete a male la mia visione del film, non liberate i Doberman per punirmi. Credetemi quando vi dico che mi aspettavo tanto e che sono rimasto con un palmo di naso. Hunger Games vanta numerosi spunti interessanti, primo fra tutti l’impiego “social” della guerra e la strumentalizzazione immediata di chi nasce figlio e poi schiavo della tecnologia. Semplicemente, decide di puntare tutto su quella bambolina di protagonista, a discapito di tutto il resto. E sì, la canzoncina dell’Albero dell’Impiccato è abbastanza assuefante.
– Mario Venezia –