Sono sempre di più le persone che si rivolgono ai videogiochi di una volta per trovare nuove emozioni videoludiche o per riscoprire sensazioni provate in passato e che sono così difficili da ritrovare nei prodotti odierni. Chi per un nostalgico ritorno alle origini insomma, chi per curiosità e desiderio di scoprire vecchi cimeli ormai dimenticati da tutti, sono tantissimi i giocatori che ritornano al passato, tanto che il retrogaming è diventata una vera e propria moda, un po’ naif se volete, ma che ha comunque un senso in un periodo in cui di idee veramente nuove e originali non se ne vedono in giro, nell’industria videoludica così come in tanti altri settori.
Le grandi software house, un po’ per non perdere possibili acquirenti (anche giovanissimi), un po’ per andare sul sicuro, ripropongono continuamente titoli e meccaniche, producendo seguiti su seguiti (nessuno qui ha nominato Call of Duty, non abbiate la coda di paglia!) fino ad arrivare all’apice del riciclo, quando proprio di sequel non se ne può più: il reboot. Questa maledetta parola sta a significare che il gioco che avremo davanti sarà sempre uguale ai suoi predecessori, solo che nel titolo non troveremo più il numero sequenziale della saga. Si riparte da zero!
In realtà ciò che si nasconde dietro la parola reboot è una totale mancanza di nuove idee, il non volersi assumere il rischio di proporre qualcosa di nuovo, qualcosa che non sappia di già visto. D’altronde, quando i budget per questi titoli sono così spaventosi, è normale che le casa produttrice non possa permettersi un fallimento e per non correre pericoli si rifugia nel già collaudato.
Chi può correre questi rischi invece sono gli sviluppatori indipendenti che, a fronte di un bassissimo costo delle loro produzioni, possono permettersi il lusso di cercare nuove strade, di sviluppare giochi originali e in alcuni casi anche rivoluzionari. Sto parlando dei cosiddetti indie, alcuni dei quali diventati così famosi, proprio grazie al loro carico di novità, da essere ormai conosciuti da tutti.
Questa lunga premessa per dire cosa? Che si può guardare al passato e nello stesso tempo innovare, basta avere il coraggio di farlo, e l’autore del gioco di cui sto per parlarvi c’è riuscito: Daisuke Amaya, in arte “Pixel”, creatore di quel piccolo capolavoro che è Cave Story. In questo caso si può parlare, tra l’altro, di autore di un videogioco perché nell’effettivo il giapponese Daisuke Amaya ha realizzato interamente da solo il suo titolo, dagli artwork fino alla strepitosa colonna sonora, di cui a breve parleremo. Ovviamente, per la natura delle cose, questo non sarebbe mai possibile in una grande produzione, su cui lavorano centinai e centinaia di persone, ognuna specializzata in un ambito ben preciso.
Ma torniamo a Cave Story (Dōkutsu Monogatari in giapponese), che si presenta come un classico platform bidimensionale che trasuda il fascino pixelloso dei vecchi giochi a 8 bit da tutti i pori (dovrei dire da ogni pixel ma poi diventerei monotono), strizzando l’occhio a classici come Metroid e Castlevania (se non li conoscete, pentitevi peccatori!). Il protagonista dell’avventura, un misto tra fantasy e fantascienza in tipico stile nipponico, è un piccolo robot umanoide di nome Quote, ovvero “citazione” in inglese. Già questo dovrebbe farci drizzare le antenne! Il nostro eroe si sveglierà in una buia caverna senza ricordare nulla né del suo passato né del perché si trovi lì. Una volta abbandonato quel luogo angusto però ci renderemo conto che il mondo racchiuso nella grafica retrò di Cave Story è davvero vastissimo, ricco di personaggi con una loro storia e con un passato che piano piano andremo scoprendo sempre più. Questo è un elemento inusuale per un platform, genere che di solito tende a trascurare la trama per puntare tutto sul divertimento puro e crudo. Qui, invece, ci troveremo di fronte ad una storia complessa che presenta anche finali diversi, a seconda di ciò che faremo nel corso dell’avventura. Incontreremo delle buffe creature simili a conigli chiamate Mimiga, una razza pacifica e batuffolosa (diamine, sono conigli in fondo!) schiavizzata e oppressa da un misterioso Dottore e dai suoi scagnozzi: Misery, una strega anch’essa Mimiga e il suo compagno Balrog. E se ve lo state chiedendo no, Tolkien non c’entra nulla, e Gandalf non vi aiuterà, visto che si tratta di una specie di valigia con un faccione allegro che ci darà filo da torcere in diversi punti della storia.
Già, perché non mancheranno i boss, tanti come nella tradizione di questo genere, che dovremo affrontare con le armi che troveremo lungo la via. E qui c’è un’altra gradevole innovazione, che rende il gioco sempre avvincente e sul filo del rasoio. Infatti ogni arma avrà tre livelli di energia, che si sbloccheranno raccogliendo dei cristalli lasciati dai nemici, permettendoci di essere sempre più letali. Ma ogni qualvolta saremo colpiti da un mostro il livello dell’arma che stiamo impugnando scenderà, costringendoci a fare nuove uccisioni per ritornare al livello di potenza precedente. Questo espediente ci farà stare sempre vigili e tesi.
Ma è dal punto di vista artistico che Cave Story gioca le sue carte migliori: tutto è curato alla perfezione, e con i suoi colori vivaci e i tantissimi dettagli è una gioia per gli occhi di chi ama la pixel art e certe produzioni retrò. Le musiche delle varie zone di gioco sono eccezionali, e richiamano anche loro celebri motivi di capolavori del passato. Provate a sentire il tema principale o il brano “To Grasstown”, musiche che danno assuefazione, e capirete di cosa sto parlando.
Visto poi che noi di Illyon siamo buoni, eccovi il sito dove potrete scaricare aggratis questo piccolo gioiello! In realtà il merito, anche in questo caso, è di Daisuke Amaya, che ha distribuito gratuitamente la sua creazione, pur essendoci attualmente i rifacimenti, a pagamento ovviamente, per Nintendo Wii e per Nintendo 3DS con una grafica rifatta. Basta collegarsi qui, e potremo scaricare anche la versione completamente tradotta nella nostra bella lingua italica. Cosa volete di più? E adesso tutti a salvare Mimiga, presto!
– Davide Carnevale –