Il famoso regista e produttore fa man bassa dei brand cinematografici più famosi: è tutto oro quel che luccica?
Il nuovo Messia di Hollywood, a livello registico e produttivo, è senza dubbio Jeffrey Jacob Abrams, meglio noto come J. J. Abrams. Creatore della serie televisiva Alias e co-creatore di Felicity, Fringe e del successo planetario Lost, il fresco (27 giugno) quarantottenne produttore, sceneggiatore e regista newyorchese sembra essere la reincarnazione americana di Re Mida. Ultimamente, tutto ciò che tocca si trasforma in oro: dopo aver rivitalizzato, per lo meno a livello commerciale, l’epopea di Star Trek che sembrava bella che morta e sepolta, il buon J.J. ha messo le mani sull’esalogia nientedimeno che di Guerre Stellari. Nel gennaio del 2013 viene scelto dalla Walt Disney Pictures e dalla Lucasfilm per dirigere Star Wars: Episodio VII, nuovo capitolo della saga creata da George Lucas in uscita nel 2015, prima parte della nuova trilogia sequel prevista dopo gli eventi della trilogia originale. Insomma, la Abramsiana way of life sembra essere tanto semplice quanto redditizia: pescare a piene mani in brand cinematografici che hanno fatto la storia del cinema statunitense ma che, inevitabilmente, mostrano un po’ di acciacchi dovuti allo scorrere del tempo, rimetterli in piedi svecchiando il tutto tramite l’introduzione di un linguaggio cinematografico contemporaneo, il ritmo vorticoso, il montaggio da videoclip, i dialoghi infarciti di battute, e mettere tutto di nuovo sul mercato.
I risultati, finora, sembrano dargli ampiamente ragione, e i suoi supporter sostengono che, in fondo, abbia restituito all’onor dello schermo immaginari che probabilmente sarebbero stati destinati a scomparire definitivamente dai radar del grande pubblico. Tutto vero, tutto giusto. Io però, sommessamente, mi chiedo se questa operazione di riverniciatura a tutti i costi non rischi di snaturare irrimediabilmente gli immaginari di cui sopra.
Spazio, ultima frontiera. Questi sono i viaggi della nave stellare Enterprise..o no?
Lo ammetto, da trekker sono sempre prevenuto su chiunque metta le mani sulla mia serie di fantascienza preferita, senza essere del mestiere ed aver fatto una lunga gavetta nei sotterranei della Paramount, come cantano i Red Hot Chili Peppers. Ho deciso però di accantonare pregiudizi vari e mi sono accostato ai nuovi film di Abrams con mente aperta e con l’intento di dare davvero un giudizio spassionato. Ammetto altresì di essere ripiombato nel gorgo della nostalgia e della commozione a sentire parlare di nuovo, sul grande schermo, di propulsione warp, cristalli di dilitio, gondole di curvatura, phaser, siluri fotonici, Klingon, Khan, guardiamarina, singolarità quantiche e chi più ne ha più ne metta. Ho goduto di un bel prodotto, obiettivamente, un buon solido film di fantascienza con spunti interessanti, qualche bella trovata e molto sano divertimento (almeno, per quanto riguarda Star Trek – Il futuro ha inizio). Insomma, ho dovuto ammettere che si trattava di un film riuscito, tecnicamente parlando.
Un film riuscito, ma un reboot fallito. Avrebbero dovuto togliere Star Trek dal titolo perché quello, semplicemente, non è Star Trek. Dov’è il cast consapevole dell’ambiente e dell’immaginario nel quale si sta muovendo? Solo Karl Urban e Zachary Quinto all’altezza dei predecessori DeForest Kelley e Leonard Nimoy, a mio parere. Dov’è il Kirk sì avventato e scapestrato, ma capace di una profonda umanità della quale sempre si stupisce Spock? Dov’è il senso dell’amicizia vera tra i membri dell’equipaggio, quell’amicizia conscia dei pregi ma soprattutto dei difetti di ogni rapporto? Dov’è quel mix di evasione, senso del meraviglioso e capacità di far riflettere sulle dinamiche sociali, psicologiche e sulle grandi domande dell’umanità? In breve, dov’è la chiave di volta della più famosa delle Space Opera, la consapevolezza che il vero viaggio di scoperta non è tanto quello tra le stelle, ma quello dentro sè stessi? Dov’è Star Trek? Non ve n’è traccia. Un buon film di fantascienza, con momenti che oscillano tra l’onesto e l’ottimo, con il brand buttato lì a puro scopo pubblicitario e commerciale, come un’onesta borsa prodotta in Cina, magari buona di per sé, e poi marchiata Prada. Questa la sgradevole sensazione all’uscita del cinema.
La Forza sarà con loro?
Immaginate quindi lo stato d’animo quando si è appreso che il primo film della nuova trilogia sequel sarebbe stato girato proprio da Abrams. Ma come, dopo Star Trek anche Star Wars? Due universi che non si sono mai parlati, e speriamo non vengano accomunati solo dallo scarso rispetto per i capitoli precedenti. Mi sono ripromesso di accantonare ogni pregiudizio anche in questo caso, ma la ferita dell’orrenda “Minaccia Fantasma” brucia ancora, e le prime notizie che filtrano riguardo i sequel non sono propriamente rassicuranti, come autorevolmente riportato dai colleghi nelle settimane passate. Sperando che i vecchi Mark Hamill, Carrie Fisher e Harrison Ford non siano messi lì a bella posta come specchietto per le allodole (se confermato che i tre episodi saranno basati sui romanzi di T. Zahn, la cosiddetta Trilogia di Thrawn, il plot prevederebbe effettivamente la presenza fattiva dei tre. Non si capisce però come intenderebbe gestirli Abrams dato che nella continuity i personaggi dovrebbero avere sulla cinquantina di anni mentre la Fisher veleggia per i 60, Hamill li ha già superati mentre Ford è ormai un arzillo settantenne.), le voci che filtrano sul resto del cast non fanno ben sperare: qualche giovane di belle speranze e qualche nome famoso presso una certa fascia di età di pubblico (uno per tutti, il Gleeson di Harry Potter) il che aumenta le perplessità circa il tipo di film che intende girare Abrams. Temo uno Star Wars consegnato mani e piedi alla generazione One Direction, che è poi guarda caso il bacino di riferimento della Disney.
Potrei sbagliarmi, e spero di essere smentito, ma il precedente di Star Trek non è rassicurante. Hollywood è ormai in crisi estrema di idee soprattutto per quanto riguarda le Grandi Storie (cit. Sam Gamgee), e non ha più il coraggio di proporre nemmeno qualcosa di anche solo nominalmente nuovo, preferendo cercare di parare o minimizzare l’eventuale fallimento dietro nomi gloriosi. Così facendo però, a ricoprire una sostanza fondamentalmente mediocre, rischia di snaturare irrimediabilmente e rendere gusci vuoti quegli stessi nomi leggendari che dopo tanti anni di successi a mio parere avrebbero il diritto di essere lasciati in pace.
– Luca Tersigni –