Vi siete mai chiesti come sarebbe Star Wars se a scriverlo fosse stato Shakespeare? Probabilmente no, ma Ian Doescher ha risposto a questo dubbio.
Dev’essere l’aria – o forse l’acqua – di Portland ad avere una peculiare influenza sui suoi abitanti. Per molti, l’Oregon esiste solo come meta finale di un sadico videogioco incentrato sul viaggio dei padri pellegrini, ma lo stato e, in particolare, la città di Portland sono note per avere generato personaggi dal profilo particolare.
Dopo lo scrittore Chuck Palahniuk (noto per Fight Club, Invisible Monster, Survivor e molti altri), in seguito a Courtney Love (musicista svezzata a LSD dal manager dei Grateful Dead), ecco che un altro bizzarro individuo si rivela partorito dal ventre nord-occidentale degli States: Ian Doescher.
Ian, a differenza delle celebrità sopra menzionate, non vanta un passato travagliato o segnato da eventi rilevanti per la sua carriera di artista, é anzi una persona estremamente normale; istruito a Yale, con un incarico stabile in un’agenzia di marketing, due figli… il suo unico “segreto” è quello di essere un fan-boy dei più passionali. Ammaliato dall’idea di rivisitare le opere classiche in veste originale e motivato dalla lettura del best-seller, Orgoglio e pregiudizio zombi, decide di dare vita ad un ibrido che glorifichi le passioni che ha sempre custodito nel cuore: Star Wars e i drammi shakespeariani. Dal 2009 in poi, tuttavia, ci siamo imbattuti in un numero crescente di reinterpretazioni simili (prevalentemente in chiave steampunk o horror), molte delle quali di qualità scadente e pubblicate con evidenti fini commerciali; non sorprende, quindi, che nell’accostarsi al progetto di Ian si sia dominati da una certa dose di cauta diffidenza. Combinare un genere altamente cinematografico con lo stile Seicentesco parrebbe un azzardato, se non addirittura abominevole, ma ne è sorprendentemente nata un’opera fresca e divertente, scritta evidentemente da un autore legato sentimentalmente sia alla forma che agli argomenti di cui trattava e, probabilmente, che ha speso più energie intellettive a creare questo adattamento di quante ne avrebbe impiegate nel dare vita ad un lavoro originale.
William Shakespeare’s Star Wars: Verily a New Hope – questo il titolo completo – si pone come genuina british play, mantenendo per tutta la durata l’uso del pentametro giambico e accompagnandosi magnificamente con un coro il cui scopo è di evidenziare i cambi di scena, descrivere le azioni concitate e, cosa molto apprezzata, introdurre i concetti essenziali in modo da rendersi indipendente e comprensibile ai neofiti. La stessa scelta dei termini lessicali, sebbene distante dalla versatilità di cui era capace Shakespeare, richiama debitamente il materiale di ispirazione, ma optando per uno stile umile e familiare che, in sostanza, non costringe a tenere sottomano un dizionario per poter cogliere tutti i riferimenti sconci – ahimè, riferimenti del tutto assenti in questo testo marchiato Disney.
Incitato dalla LucasBooks, Doescher rivede il copione del film con una certa elasticità e, avvantaggiato dal conoscere la trama di tutti sei gli episodi, esplora maggiormente le vicende e i personaggi, riuscendo ad approfittare delle possibilità fornitegli dal media scelto; quei “vuoti” e quelle incongruenze che Lucas ha goffamente cercato di nascondere con mille ritocchi vengono qui risolti grazie a spiegazioni di largo respiro o evitati a piè pari. I protagonisti, nello specifico, si discostano dalla loro controparte in celluloide e acquisiscono nuova linfa dalle tipiche maschere teatrali, assumendo prospettive e legami che consolidano, più che stravolgere, la solidità della vicenda. Scopriamo, per esempio, come Obi One Kenobi, fedele al suo vecchio istinto guerriero, ometta certe informazioni a Luke (spoiler-free, per chi fosse indietro di 40 anni) non solo per moralità e rimorso, ma anche con il disegno di arruolare il giovane nei ranghi jedi o come Darth Vader, emulando Riccardo III, sia dipinto alla maniera di un antagonista drammatico e disilluso, rassegnato al male – e alla politica – perché fedele alla posizione riservatagli dal destino. La rivoluzione più significativa va sicuramente a toccare C-3PO e R2-D2 che, influenzati da Rosencrantz e Guildenstern sono morti, si scoprono rispettivamente come un egocentrico saccente incapace di percepire la realtà circostante e un provetto trickster deciso ad esprimersi con vera voce solo quando lontano da orecchie altrui.
Per aiutare l’immersione nell’atmosfera e, ammettiamolo, per sollazzare chi si avvicina a queste pagine, le avventure vengono occasionalmente impreziosite da illustrazioni che mimano qualità e fattura delle stampe xilografiche – anche se, volendo essere pignoli, rimandano più a atmosfere Ottocentesche; gli interpreti prendono così forma rivelando le fattezze in armatura, in mantella con collo di pelliccia, fasciati da austere gorgiere imperiali o, nel caso di Jabba The Hutt, in completi che rimandano molto a Enrico VIII (ebbene si, la scena tagliata dove Han e Jabba discutono nello spazioporto viene qui riproposta).
Volendo trovare per forza degli aspetti negativi al libro, si potrebbe dare peso ad alcune “forzature” inserite, non sempre in maniera armoniosa, per rendere maggiormente accessibile il prodotto e plasmarne l’atmosfera. Sin dalla prima battuta (“Now is the summer of our happiness/ made winter by this sudden, fierce attack!” da C-3PO, atto I, scena I) si percepisce come lo scritto sia debitore nei confronti del Bardo dell’Avon e, in maniera molto cauta, gli si affidi ciecamente, piuttosto che sforzarsi nel guadagnare una sua individualità letteraria. Questa “macchia” rischia di indispettire una minoranza forse eccessivamente purista, ma chiunque dotato di sense of humor finirà con il trattare questa peculiarità come una vera e propria sfida, tentando di identificare le fonti di provenienza – nel caso dell’esempio citato, trattasi di Riccardo III, atto I, scena I.
Con le sue 176 pagine, W. S.’s Star Wars é una lettura leggera adatta ad ogni fan della saga (ma anche a molti che vi sono alieni) e nonostante sia improbabile un’eventuale edizione italiana – usando come metro di giudizio il trattamento ricevuto dalla serie del Nuovo Ordine Jedi – è onesto ammettere che nella traslazione si perderebbe buona parte della verve banalizzandone il valore.
Se vi siete già imbattuti in quest’opera e l’avete gradita, sappiate che Doescher ha lavorato anche ai successivi capitoli della trilogia, The Empire Striketh Back e The Jedi Doth Return – ci auguriamo solo che non ceda al lato oscuro decidendo di adattare anche i prequel… un Jar Jar Binks elisabettiano sarebbe veramente troppo.
– Walter Ferri –