Alla fine ho ceduto, e anche io ho visto il film di Fullmetal Alchemist, il nuovo live action basato sul manga di Hiromu Arakawa proiettato nei cinema giapponesi a dicembre 2017 e reso disponibile per noi occidentali dalla piattaforma Netflix. Inutile sottolineare quanto fosse alta l’anticipazione dei fan, viste anche le polemiche susseguitesi per tutto lo scorso anno sulla scelta del regista, Fumihiko Sori, di usare solo attori giapponesi per un’opera ambientata in un setting ispirato all’Europa del primo Novecento.
All’epoca, personalmente avevo consigliato di calmare gli animi e aspettare l’uscita della pellicola per giudicare la resa di questa pietra miliare degli shonen giapponesi. Ora che il film è uscito, però, credo sia abbastanza evidente come gli attori con gli occhi a mandorla siano seriamente l’ultimo problema: eh sì, perché di cose che non funzionano ce ne sono, e anche un bel po’.
Ma iniziamo dalla trama: Fullmetal Alchemist segue le primissime avventure dei fratelli Elric, partendo dalla trasmutazione fallita della madre e passando dall’omicidio di Maes Hughes, fino alla morte di Lust, il tutto cercando di dare organicità e continuità alla storia, in modo da superare la natura episodica del manga. Fin qui non ci sarebbero nemmeno troppi problemi: difficilmente in due ore di film si sarebbe potuta condensare la trama lunga e complessa dell’opera originale.
Di conseguenza, non ho trovato inadatto dare un ruolo più esteso e prominente a un personaggio originariamente secondario come quello di Shou Tucker, l’alchimista intreccia-vite che tutti i fan del manga odiano per aver trasmutato figlia e cane in una chimera parlante. Gli inconvenienti, invece, sorgono quando si estrapola una delle scene finali dell’opera originale, ossia la rianimazione dei corpi artificiali nascosti sotto Central City, solo per rendere in qualche modo più epico e importante lo scontro finale con Lust – fallendo miseramente. Scontro che, tra l’altro, nel manga non aveva bisogno di nessun incremento di pathos, essendo uno dei più tesi della storia.
Quindi perché nel live action finisce per essere sottotono? Ma ovviamente per uno degli altri grandi problemi di questa rivisitazione: l’assenza di molti personaggi secondari solo di nome, ma che rendono la trama originale così umana e avvincente. Lasciamo perdere Izumi Curtis e il padre di Edward e Alphonse, Hohenheim, che possono anche essere conservati al fresco per un eventuale sequel, e parliamo quindi dell’entourage di Roy Mustang: dove sono finiti Breda, Falman, Fury e, soprattutto, Havoc? Senza di loro è evidente come la milizia di Amestris sia un ammasso di soldati anonimi, buoni sono per essere terrorizzati e mangiati da Gluttony.
Inoltre, la scelta di escludere il personaggio di Scar e di nominare solo di sfuggita la guerra civile di Ishbar è certamente dovuta al non voler appesantire troppo la trama, ma in questo modo si toglie alla storia uno dei personaggi più importanti e, soprattutto, una delle tematiche più pesanti trattate dalla Arakawa. La decisione di non voler parlare di questo sterminio è molto furbetta, visto che il Giappone ha una lunga storia di discriminazione delle proprie minoranze Ainu, ryukyuani e burakumin, quindi è evidente che, almeno per questo film, si sia voluto evitare di scatenare polemiche.
E cosa dire dei personaggi presenti? Se i fratelli Elric sono trasposti anche decentemente, e Hughes e Tucker se la cavano bene, per il resto siamo di fronte a rivisitazioni che poco c’entrano con gli originali cartacei. Mustang è un tamarro infallibile e privo di qualsivoglia difetto, cosa che ovviamente porta a ridurre Riza Hawkeye a una sidekick spaventata, cancellando totalmente il rapporto paritario che avevano in origine. Non fatemi nemmeno cominciare con la resa di Winry: perché questa ragazza complessa e determinata è stata ridotta a una idol da pubblicità kawaii? Come si sono potuti deformare e stereotipare così tanto questi personaggi, in un’opera che di suo si impegna tantissimo proprio nel combattere le discriminazioni e punta molto sull’umanità e sulla tridimensionalità delle persone?
Ma andiamo avanti e parliamo un po’ della recitazione, che pare abbia deluso tantissimo i fan occidentali e che dà l’impressione che il cast sia formato da novellini inesperti. In tal senso, il grosso problema sono sicuramente i dialoghi lenti, con le battute scandite e inframezzate da lunghi silenzi, tali da essere percepite come estremamente artificiose e forzate. O almeno, a noi occidentali paiono così, perché questi sono i tempi del teatro giapponese classico, in cui tutta la performance si dilata in lunghe pause. Tuttavia, sebbene ciò spieghi lo stile di recitazione di questo live action, non significa che noialtri lo dobbiamo trovare per forza piacevole, soprattutto quando nell’anime Fullmetal Alchemist: Brotherhood le stesse scene scorrevano con molta più scioltezza.
A tal proposito, è interessante come questa produzione spesso riprenda pari pari dal manga e dall’anime molte inquadrature, che tuttavia non sempre risultano altrettanto naturali o d’effetto. La fotografia è abbastanza scialba, e dimostra come non basti avere come base un capolavoro per dar vita anche solo a un film accettabile.
Cosa si salva, quindi, di questa pellicola? A parer mio sono sicuramente da promuovere le scenografie e gli effetti speciali: la bellezza di Volterra e della campagna toscana mettono una bella pezza anche al film più brutto, e gli effetti speciali sono curati e d’effetto.
Il resto? Il resto è triste, ma ciò che veramente mi delude di più sono i contenuti filosofici e morali annacquati, piuttosto che la resa tecnica mediocre.
E voi cosa ne pensate? Chi, come me, sta programmando di rileggere il manga per consolarsi?
–Gloria Comandini–
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