Mentre aspettavamo l’uscita di King Arthur: Il potere della spada, abbiamo fatto il punto della situazione sul trattamento che la cara vecchia industria cinematografica ha riservato alla saga di re Artù (date un’occhiata qui se ve lo siete perso): in sintesi, pochi up, molti down, alcuni meh. Ebbene, sono stata a vedere l’ultimo reboot arturiano e, dopo un’attenta analisi e numerose valutazioni di carattere comparatistico, posso dirvi con certezza che il mio giudizio sull’ultimo parto di Guy Ritchie è un sentitissimo “meh”.
Ammettiamolo, c’era da aspettarselo: innanzi tutto perché le ultime pellicole sul tema non sono state un successone, e niente lasciava a intuire diversamente di questa; in secundis perché, se è vero che Guy Ritchie ha dimostrato di essere un regista istrionico e brillante negli ultimi film di Sherlock Holmes, è anche vero che allestire un action in salsa steampunk nella Londra vittoriana comporta molti meno rischi che non riproporre lo stesso modello per la Londinium di parecchi secoli prima. Ciò detto, se i lati negativi del film erano ampiamente prevedibili, lo erano anche quelli positivi. Perché, a dire il vero, ce ne sono. Ma andiamo con ordine.
In linea di massima, l’intera storia può essere vista come una battaglia fra la moda tamarra dei primi anni duemila, vestita dalla borchiatissima corte del perfido Vortigern, vero e proprio tripudio di giacche e calzoni di pelle attillata e sguardi acchiapponi alla Verdone, e le più recenti tendenze della moda hipster che trovano nel taglio fashion di Artù, oltre che nella sua camminata da indossatore di intimo firmato, le più alte vette della sublimazione; il costumista deve aver pensato che la moda fosse rimasta invariata nei secoli dalla tarda antichità a oggi, fornendo ai personaggi un vasto assortimento di canotte, tute sportive e cuffie da rapper, purché rigorosamente di tela o di lana, con qualche concessione al cotone. Ma anche tralasciando la forma, quello che mi ha fatto collocare questo film nella mia personale mensola del trash sono state le numerose concessioni personali nella trama che il regista forse avrebbe potuto anche non concedersi: in molte versioni della storia, Artù ha una giovinezza difficile (nel classico Disney è un umilissimo scudiero di provincia), ma era proprio necessario fargli amministrare un bordello londinese, o fargli apprendere l’arte del combattimento da un improbabile maestro cinese noto come Kung Fu George? Senza contare che, per non farsi mancare proprio niente, Ritchie ha pensato che sarebbe stato carino inserire un’allegra rappresentanza di vichinghi hipster a elemosinare favori alla corte di Vortigern.
Avevamo detto “lati positivi”: e sì, ce ne sono alcuni. In primis, la regia di Ritchie, sempre divertente e dinamica, ancora una volta votata all’action rocambolesco (un po’ troppo action, anche in momenti che avrebbero richiesto ritmi più meditativi) e condita con dialoghi brillanti, ai limiti della genialità. Purtroppo gli attori non sono stati diretti splendidamente, ammesso che siano stati diretti affatto – fatta eccezione per Jude Law, che a quanto pare ha ricevuto indicazioni registiche ben precise da Ritchie, soprattutto circa la posizione del mento, da tenere sempre rigorosamente alzato e sporgente, alla Marlon Brando. Ma soprattutto, Ritchie padroneggia l’elemento magico, trascurato negli ultimi film ispirati alla saga arturiana. Le scene più riuscite del film (poche se consideriamo lo sviluppo generale della trama, nell’insieme abbastanza lineare e a tratti scontato) sono infatti quelle che riguardano i poteri di Excalibur: molto intense tutte le scene che la coinvolgono, dalla magnifica sequenza del rifiuto di Artù, fino all’incontro con la Signora del Lago; riuscita anche la scelta della metamorfosi dello stesso Pendragon nella roccia che intrappolerà la spada leggendaria, fino all’arrivo del suo legittimo erede.
In conclusione, malgrado non me la senta di prendere troppo sul serio le fantasmagoriche avventure di Truzzartù nella Terra dei Tamarri, il film non è poi tutto da buttare: come al solito, Ritchie si salva per le sue qualità registiche, ma se si fosse concentrato meno sullo stile e più sulla particolare sceneggiatura che aveva tra le mani, forse adesso non starei cercando di dimenticare la scena iniziale del film, in cui maghi incandescenti guidano telepaticamente enormi elefanti da guerra alla conquista del regno di Pendragon, con sottofondo di zampogna e canti a cappella.
–Francesca Canapa–
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King Arthur: Il potere della spada – Recensione del film
Francesca Canapa
- La magia è resa su schermo in maniera ottimale;
- La regia è divertente e mantiene alta l'attenzione;
- i costumi trasformano il film in un'improbabile tamarreide;
- la sceneggiatura è scarsa e cade spesso nel banale;